Corriere della Sera, 31 maggio 2023
intervista a Danny Quinn
Danny Quinn: il ricordo più bello di suo padre?
«Quando faceva Zorba a Broadway. Vederlo felice mentre lo applaudivano è stato uno dei momenti più gioiosi. C’eravamo tutti: io, mamma, i miei fratelli Lorenzo e Francesco».
E il più brutto?
«Forse uno dei più difficili è stato quello del divorzio».
Suo padre era violento?
«No, anzi, per favore correggiamo questa cosa. L’ho visto mettere le mani addosso a mia madre una volta sola nell’arco di 30 anni, ed è quello che ho raccontato agli avvocati durante il loro divorzio».
Quando eravate piccoli non vi picchiava con la cinta?
«No, anche quello è successo solo una volta e fu buffo, a suo modo, ma non potevo ridere sennò avrei peggiorato le cose. Non ricordo cosa avessimo combinato, eravamo tremendi. Era stata mia madre a chiedere l’atto disciplinare».
Forse avevate dato fuoco a qualcosa?
«No, quello era Lorenzo».
Ma lei aveva incendiato un banco di scuola dai Giuseppini, a Roma. E fu espulso.
«Io non ero proprio un incendiario, ero un fumogeno: avevo dato fuoco a della carta, senza calcolare che il banco era di legno; e prese fuoco...».
Tornando alla punizione?
«Ci mise in fila e ci dette delle cinghiate sulle cosce, ma non ricordo che ci abbia fatto male. Mi sembrava una cosa degli antichi romani, molto scenografica».
Però raccontò di aver preso in generale più botte di tutti.
«No. Una volta mio padre mi diede uno schiaffo, l’unico, ma eravamo a tavola e me lo presi in faccia perché avevo parlato fuori turno. Ma io parlo sempre fuori turno!».
Allora era severo.
«Certo, per forza!».
E poi come altro era?
«Papà è stato un magnifico uomo, con una curiosità immensa e un grande amore per la vita, in tutte le sue forme. Era molto colto, gli piaceva leggere, aveva 5 mila libri. A casa nostra venivano Gore Vidal, Oriana Fallaci, molto simpatica: a me sono sempre piaciute le donne dure, l’ho trovata giusta; e poi, per andare d’accordo con mio padre...».
Cos’ha preso da lui?
«Aveva un grande senso dell’umorismo, amava la gente, gli piaceva ridere, era generoso. Io amo la gente semplice, mi interessa aiutare gli altri e mi piace ridere. Ma mentre a lui piaceva raccontare le barzellette, il mio senso dell’umorismo è più inglese».
Il film che ha rivisto di più?
«Lawrence d’Arabia, non solo perché c’era mio padre, ma perché è uno tra i 10 più belli della storia del cinema».
Ha recitato con lui e con i suoi 2 fratelli in «Stradivari», nel 1988. Fu emozionante?
«Se sei figlio di un attore è quasi preferibile passarci del tempo a livello personale e non professionale. Ma in quell’occasione era rilassato, tranquillo, ed è stato bello passare del tempo insieme».
Chissà gli attori leggendari a casa vostra. John Wayne?
«Yes. Ero molto piccolo, ricordo il suo vocione (lo imita, ndr): Hey, how are you doing kid? Io guardavo in alto, lui era un metro e 92, un gigante...».
Altri miti?
«Casa nostra ad Albano Laziale era isolata, ma gli amici venivano a trovarlo. Mio padre frequentava molto Gregory Peck, un personaggio quieto e tranquillo, gli piaceva ascoltare, era bello vederli vicini, due caratteri opposti. Un altro era Don Rickles, comico cattivissimo, insultava tutti, ma aveva una grande umanità. Alla fine della carriera mio padre divenne molto amico di Robert De Niro e Scorsese».
Apriamo la scatola dei suoi fratelli: ho calcolato 12 figli.
«Quando siamo nati noi tre lui ne aveva già 5 dal primo matrimonio. Chris era morto piccolino a 3 anni in piscina, infatti con la mia bambina ho il terrore, ma adesso che ha 5 anni va a scuola di nuoto».
Dunque: Chris, Christina, Catalina, Duncan, Valentina. Poi siete nati voi, dal matrimonio con Jolanda Addolori.
«Francesco (scomparso nel 2011, ndr), io e Lorenzo».
Sean e Alex?
«Sono nati durante il matrimonio con mia madre da una tedesca che è appena morta. Ma c’è anche Matthiew, concepito con una francese: lui non ha mai voluto nessun rapporto con noi o con mio padre».
Ci sono, infine, Antonia e Ryan, avuti con l’ex segretaria che poi sposò. E siamo a 13.
«Però Raúl Juliá jr mi disse che ne aveva altri due a Città del Messico. Forse faremo un progetto per cercarli».
Vi siete mai visti tutti?
«No, ma non per cattiveria: abitiamo lontani e abbiamo vite diverse. Ryan, il piccolo, l’ho incontrato a Barcellona. Vorrei organizzare qualcosa, magari in America».
Lei ha una sola figlia.
«Luna. Mia moglie, Nancy Maamari, è libanese, conduceva un programma a Beirut. L’ho conosciuta in Sardegna».
Sicuro di non averne altri?
«No, grazie al cielo! È già tanto se ne ho avuto una».
Sarà stato difficile condividere il suo papà...
«No, perché sinceramente non era condiviso. Il problema era per gli altri fratelli, semmai. Uno, in particolare, raccontò che vide per strada me, papà e Lorenzo, ma gli proibirono di avvicinarsi».
In casa non ne parlavate?
«Ricordo solo una conversazione a tavola, a 16-17 anni: mio padre diceva che aveva fatto un errore e voleva chiuderla lì. Con la tedesca, però, aveva fatto lo stesso errore due volte di seguito...».
È stato un po’ difficile essere figlio di Anthony Quinn?
«No, semmai me lo sono reso difficile. Perché in realtà era bellissimo: ovunque andassimo la gente lo riconosceva e spalancava le porte».
È mai stato in analisi?
«Sì, sono andato da tre analisti in America, ma la più profonda era una junghiana a Milano. Ho scritto un libro sulla creazione responsabile: lo devo pubblicare».
Ripensa ogni tanto al «suo» Sanremo dell’89?
«Per farlo ci vogliono tre mesi di preparazione: noi abbiamo avuto solo 10 giorni...».
A livello cinematografico avrebbe voluto fare di più?
«Penso di non aver ancora cominciato, ho fatto solo la gavetta! La mia idea è fare un film che io stesso vorrei vedere. Ho avuto una conversazione con De Niro, che ha la stessa problematica dei figli con un padre famoso. Secondo me c’è troppa enfasi su quello che fai anziché su chi sei».
Dove sono i due Oscar vinti da suo padre?
«È un tema delicato perché purtroppo mio padre ha lasciato la sua eredita all’ultima moglie: è anche sepolto su una proprietà privata».
Non può andarlo a trovare?
«Non è nelle mie corde, ma non so come funziona».
Com’è possibile che abbia lasciato l’intera eredità a lei?
«In America puoi lasciarla anche al gatto. Può essere spiacevole, ma più per le cose sentimentali, per l’arte: mio padre era scultore e pittore, realizzò tantissime opere».
Una parte non è a Roma?
«No, fece trasportare tutto negli Stati Uniti».
È riuscito a salutarlo prima che morisse?
«Not really. Lui era a letto, e mio fratello gli ha avvicinato la cornetta. Non mi rivolgeva la parola da 5 anni. Aveva smesso di parlare solo con me, perché avevo preso le parti di mia madre nel divorzio».
Se potesse stare con lui un altro minuto cosa gli direbbe?
«Che bella questa avventura meravigliosa sulle montagne russe. E lo abbraccerei».
Ha dei rimpianti?
«Non vivo di rimpianti. Certo, sarebbe stato meglio se non avesse fatto altri figli fuori dal matrimonio».
A cosa sta lavorando ora?
«A un film su mio padre, ma forse sarà anche una serie tv, un documentario o altro, perché mio padre ha fatto 300 film in America, in Italia, in Medio Oriente, in Giordania, Libia, Marocco. Sto lavorando con i Quinn Studios di Valentina Castellani: mio fratello Francesco morì un mese prima di sposarla. Ora ha preso tutto in mano Miramax. Per me è importante farlo, non dico per chiudere un capitolo, ma per rimettere in ordine, portare chiarezza».
E dopo?
«E poi farò film che hanno un impatto sulla gente, che possano trasmettere un messaggio di crescita. Tipo Instersellar: quello è il mio genere».