Agrifoglio, 30 maggio 2023
Zitti un po’, parla il grano
Ogni tanto è d’obbligo: ricordare il grano, dico. È la prima pianta agraria che abbiamo domesticato, e dunque al grano, ai suoi miti, ai suoi simboli, al piacere di mangiare- e alle dicerie sul pane e sulla pasta, alle paure varie (di ingrassare, di mangiare troppo carboidrati, il gonfiore) - insomma a tutto questo, che ci piaccia o no, siamo legati, credo indissolubilmente.
Le fasi fenologiche del grano sono quelle più conosciute e celebrate: accestimento, levata, botticella, fioritura e spigatura. Sono cambiamenti visibili a tutti, il grano cresce e cambia la forma dei campi, da prati erbosi e bionde distese sotto il sole.
Ogni fase del grano ha la sua importanza, la sua bellezza, una certa poeticità per gli animi sensibili ma anche le sue malattie. Finisce l’accestimento e inizia il mal del piede (un fungo che danneggia la parte inferiore del culmo). Inizia la levata e cominciano varie malattie fungine, la Ruggine, la Septoria, lo Oidio, mentre la fioritura e la spigatura possono essere rovinate dalla ruggine e dalla fusariosi della spiga.
Il miglioramento genetico negli ultimi cento anni ha fatto molto per proteggere la nostra pianta preferita dall’invasione dei funghi, la chimica poi ha fatto il resto, ma il miglioramento genetico, perdonatemi il bisticcio, è in continuo miglioramento e altre tecniche si stanno affinando.
Gli istituti sperimentali, vedi il Crea di Foggia (ha la sua storica sezione di Cerealicoltura e Colture Industriali) sono consapevoli dei problemi futuri: c’è da garantire un’elevata produttività, e una buona efficienza associata ad un alto tasso di biodiversità. Questo vuol dire che bisogna far girare in cerchio la materia (elementi nutritivi, sostanza organica, etc.) e chiuderlo in maniera efficiente, con meno sprechi possibili.
Meno sprechi significa anche realizzare cultivar capaci di resistere o adattarsi a stress Abiotici (stress idrico per esempio) e Biotici (attacchi parassitari).
Le resistenze agli stress hanno le loro basi genetiche, quindi è necessario identificare queste basi genetiche. Non solo, è utile capire attraverso quale metabolismo la pianta utilizza in maniera più efficiente acqua e nutrienti, in particolare azoto. Per esempio (è una ricerca del Crea di Foggia) c’è modo di associare alcuni batteri alle radici del grano, così da garantirne una maggiore efficienza allo stress idrico. C’è una sperimentazione in corso che potrebbe portare buoni risultati.
Il grano è una pianta antica, e se vogliamo raggiungere una migliore adattabilità alle mutate condizioni climatiche, in equilibrio con l’utilizzo sostenibile delle risorse, va sfruttata la biodiversità esistente (le tracce del passato) per generare nuove cultivar.
Anche per questo il Centro CREA di Foggia dispone della maggiore dotazione di collezioni di biodiversità di specie erbacee.
Tutto scorre, Panta rei dice uno dei detti più antichi, attribuiti ad Eraclito, tutto cambia, a volte il cambiamento ci prescinde, altre volte ci mettiamo il nostro carico da 90, ma gli esseri viventi hanno strumenti per adattarsi. Al nostro ingegno la capacità di trovarli e utilizzarli al meglio, perché il grano ci regala il pane: un alimento ancestrale. La filosofa francese Simone Weil ci spiega che il bambino che ha fame non smette di piangere se gli spieghiamo che non c’è pane, continua a piangere.
Non facciamo piangere i bambini, salviano il pane (e la pasta certo): facciamo ricerca, sfruttiamo i campi sperimentali e la nostra intelligenza, proviamo, misuriamo, testiamo, e se funziona diffondiamo il verbo, cioè il nuovo grano.
L’agricoltura produce cibo, e il cibo è, soprattutto, un valore simbolico.
Chi non ricorda un cibo dell’infanzia e alcuni sapori? È facile che poi, per assonanza tornino alla mente nonne, mamme, padri e parenti vari che cucinavano.
Per questa ragione l’agricoltura è terreno fertile per il nostro apparato emotivo: i ricordi ci prendono la mano, li vorremmo tenere sempre con noi.
Dunque, se così stanno le cose, come trattare il tema dell’innovazione in agricoltura?
Fateci caso, davanti alla seguente domanda: preferite farvi cavare un dente da un dentista di una volta (con i macchinari del tempo che fu) o da uno moderno (con le moderne attrezzature)? Nessuno di noi esisterebbe. Vogliamo l’anestesia, trapano sottile, tecnologia all’avanguardia.
Stessa domanda, ma con soggetto diverso: preferite il cibo prodotto da un contadino di una volta, o da uno moderno? Qui la risposta non è scontata, magari molti di noi preferiscono il cibo di una volta.
È difficile argomentare, razionalmente, in proposito.
Una volta il cibo era scarso e di cattiva qualità, una volta c’era la fame, ecc.
Tutto giusto, ma argomenti simili cozzano con il nostro apparato emotivo, cioè, appunto, vedi sopra: con i cibi, gli odori e i sapori della nostra infanzia e di rimando le nonne, le mamme, i padri insomma quelli che si sono presi cura di noi, cucinando: non vogliamo che cambino.
Tuttavia, con queste newsletter bimensili tenteremo l’impresa: prendere il testimone che ci arriva direttamente dal passato e portarlo avanti. Come dire: vero, il futuro ha un cuore (e un cibo antico) ma è necessario articolare meglio il racconto dell’agricoltura del presente, altrimenti non saremo preparati per il futuro.
Dunque, prima degli scenari futuri, qual è il presente dell’agricoltura?
E’ opportuno delimitare e definire il campo da gioco, così cambiato rispetto a quello frequentato da nostri avi.
Ogni volta che parleremo di agricoltura parleremo di quelle innovazioni che possono (o sono studiate per) soddisfare le esigenze dell’attuale campo da gioco: 8 miliardi di persone (che saranno 10 forse 11 nel 2100).
Per continuare a giocare è necessario diminuire i costi e aumentare la produzione. Trovare soluzioni innovative, adatte allo scopo.
Dunque, affinché ci sia cibo per tutti, è importante ci sia terra per tutti.
Racconteremo i diversi modi di coltivare, di produrre e di risparmiare. Forniremo numeri, esamineremo con spirito critico ma aperto varie forme di innovazione, e non disdegneremo storie emotive sul cibo, con la speranza che buone emozioni producano altrettanto buoni ragionamenti.