la Repubblica, 30 maggio 2023
Breve storia del Kosovo
Da più di venti anni l’Europa vede Kosovo e Serbia camminare su un filo sospeso in una giornata di vento. Il filo oscilla, la tensione cresce e si fanno delle mosse scomposte con le braccia per recuperare l’equilibrio all’ultimo istante. Non si sa se si arriverà davvero alla caduta finale, ma si sa che – se quel rapporto così fragile dovesse precipitare – più di qualcuno si farà male. E le conseguenze saranno per tutti.
La ferite della guerra di indipendenza del 1998-1999 combattuta dagli albanesi kosovari dell’Uck sono ancora vive. Gli undicimila morti tra i civili e la repressione del governo di Belgrado che considerava il Kosovo, e lo considera tuttora, un capitolo inalienabile della propria storia (non c’è serbo che non conosca la battaglia della Piana dei Merli combattuta lì nel 1389, nel giorno di San Vito, tra i cristiani del principe serbo Lazar e gli ottomani) pesano e ritornano ogni volta che la minoranza serba del nord e la maggioranza albanese del centro-sud, divise dallo scorrere del fiume Ibar, si ritrovano a discutere. O meglio, litigare. Ora per i documenti da esibire al passaggio dei valichi di frontiera (per Belgrado è un confine amministrativo), ora per le targhe (la motorizzazione serba ha continuato a emetterle, simbolo di una presenza istituzionale sul territorio), ora per i sindaci di etnia albanese eletti nelle quattro municipalità a maggioranza serba (Mitrovica nord, Zve?an, Zubin Potok e Leposavi?) dove ha votato il 3 per cento degli aventi diritto.
Il nodo che in venti e più anni non si è riusciti a sciogliere è sempre il solito: la Serbia non riconosce l’indipendenza del Kosovo, che Pristina ha proclamato unilateralamente nel 2008. È accettata da 101 Stati membri dell’Onu su 193, tra cui l’Italia, la Francia, gli Stati Uniti, il Regno Unito. Per Russia e Cina, invece, è una provincia autonoma della Serbia: a considerare come si è spaccato il mondo su questo pezzo di terra balcanica grande quanto l’Abruzzo e che aspira a far parte dell’Unione Europea, si capisce quale sia la posta in gioco. Per Putin, che ha sempre bloccato ogni tentativo del Kosovo di entrare nelle organizzazioni internazionali, alimentare uno stato di permanente instabilità nel cuore dell’Europa fa comodo, sia per premeresu Bruxelles, sia per tenere laSerbia legata a sé.
Dopo il conflitto del 1999 le Nazioni Unite avevano votato una risoluzione, la 1244, che aveva fatto tacere le armi predisponendo una forza di interposizione tra i contendenti: il contingente Nato della missione Kfor. Da allora il comando è passato in mano italiana 13 volte su 27 (sul ponte di Mitrovica Nord ci sono notte e giorno due macchine dei carabinieri). La risoluzione Onu prevedeva ammissioni di principio, che però entrambe le parti hanno sistematicamente violato. Quindi si capisce perché gli accordi di Bruxelles del 2013 tra Belgrado e Pristina sono stati salutati come una svolta: la previsione di un’unica polizia, elezioni comuni, l’integrazione dei tribunali.
In realtà molto di quel documento è rimasto lettera morta, perché incagliatosi sul punto numero uno: l’istituzione di un’Associazione di municipalità a maggioranza serba nel Kosovo del nord. Per Belgrado è cruciale. Per il governo albanese di Pristina è rimasta una condizione improponibile fino al marzo scorso, quando il premier kosovaro Albin Kurti ha aperto alla possibilità di istituirla. Alle parole, però devono seguire i fatti, che per ora non si sono visti. Ecco perché, di nuovo, si è tornati all’equilibrio precario sul filo, ai comandi militari di Belgrado che inviano l’esercito sul confine, a oscuripersonaggi col passaporto russo che spuntano puntualmente tra le bande criminali che fomentano l’odio, alle continue richieste di abbassamento dei toni ripetute, spesso a vuoto, dall’ambasciatore americano a Pristina.
Kurti e il presidente serbo Vucic hanno sempre un motivo per tirare un po’ la corda dalla propria parte. Un anno e mezzo fa, in nome della reciprocità, Kurti aveva messo fuori legge le targhe della motorizzazione serba, obbligando gli automobilisti a passare a quelle del Kosovo: un provvedimento che ha generato una crisi diplomatica, con proteste di piazza dei serbi kosovari, e tensioni con la polizia. A novembre dello scorso anno, però, l’atto più grave: il partito serbo ha deciso, d’accordo con Vucic, di ritirarsi da tutte le istituzioni kosovare. I poliziotti hanno lasciato le divise, i sindaci si sono dimessi, le elezioni sono state boicottate. Ma era chiaro che non sarebbe finita così.