la Repubblica, 30 maggio 2023
Javier Cercas spiega la sconfitta di Sanchez
«Una mossa strategica disperata». È perplesso Javier Cercas di fronte all’annuncio di elezioni anticipate del premier Pedro Sánchez. «Immagino che non sia stata una decisione improvvisata, vedremo se servirà a invertire la tendenza dopo la sconfitta alle amministrative, più pesante del previsto», riflette l’autore di
Soldati di Salamina e Anatomia di un istante.
Sánchez perde le elezioni in un momento in cui la situazione economica è abbastanza favorevole e il governo progressista può vantare buoni risultati dal punto di vista delle riforme sociali. Come spiega questa sconfitta?
«Sánchez ha fatto qualcosa di simile a ciò che fa Meloni in Italia, però al contrario. Ha applicato una politica economica ortodossa, d’accordo con Bruxelles, dove è molto ben visto. Però, come Meloni, ha condotto la sua guerra culturale: quella della premier italiana reazionaria e di destra, mentre Sánchez ha fatto cose che una parte importante del Partito socialista non vedeva con favore.
Un esempio è quello della Catalogna: non perché abbia condotto una politica di pacificazione, che mette d’accordo tutti, ma per come l’ha realizzata. Il fatto di rivedere il codice penale modificando i reati di malversazione e sedizione per favorire i politici indipendentisti condannati ha provocato profondi malumori. A questo bisogna aggiungere le perplessità di molti socialisti per l’alleanza parlamentare con gli indipendentisti baschi di Bildu,aggravate dalla presenza nelle liste elettorali di alcuni ex terroristi dell’Eta. E le polemiche per la legge del “solo sì è sì”, contro la violenza machista, mal formulata al punto che la sua applicazione ha provocato la scarcerazione di diversi stupratori. E questo è molto importante, perché una parte della guerra culturale si combatte sul tema del femminismo: il Psoe ha perso voti anche per questo».
Basta questo per spiegare la grande avanzata della destra?
«La destra ha vinto da una parte per gli errori della sinistra, dall’altra per la scomparsa del partito centrista, Ciudadanos, i cui voti sono tornati quasi completamente nell’alveo del Pp.
Così si spiega il successo dei popolari. Non certo per la figura del leader, Alberto Núñez Feijóo, un personaggio mediocre, incapace di articolare un discorso, senza idee originali su temi fondamentali della politica. E la presidente madrilena Isabel Díaz Ayuso, che un giorno vorrebbe prendere il suo posto, è anche peggio. Però ha la capacità di condizionarlo da destra».
Per aspirare alla Moncloa, Feijóo dovrà accettare di scendere a patti con l’ultradestra di Vox. Questo potrà influire sulle sue possibilità di vittoria?
«Se deve negoziare con Vox, Feijóo lo farà. Ma cercherà di ricondurre progressivamente gli elettori di questa formazione verso il Pp. Voxnasce come scissione a destra del Partito popolare, perciò è possibile che prima o poi i suoi elettori tornino a casa, e non sarebbe negativo. Meglio un Pp che riunisca tutte le anime della destra, piuttosto che la presenza sulla scena di una formazione estremista».
È stato un errore, da parte del capo del governo, impostare la campagna elettorale per le amministrative come un anticipo dello scontro a livello nazionale con i popolari per la riconquistadel governo?
«Tutto indica che sia così. Però era in qualche modo inevitabile.
Perché anche se la logica vorrebbe che in questi casi l’interesse si centri sulla scelta dei migliori amministratori locali, sempre più spesso avviene il contrario: il livello di polarizzazione della vita politica è diventato molto alto, in Spagna e non solo».
Lo scioglimento delle Camere è stato immediato. Sánchez non aveva altra via d’uscita?
«Di sicuro non è stata una decisione improvvisata. Gli strateghi di Sánchez devono aver pensato in anticipo che fosse la soluzione migliore in caso di sconfitta. Io credevo che avrebbe preferito aspettare fino all’autunno, alla scadenza della legislatura. Per tentare di separarsi dai suoi soci di governo, che l’hanno danneggiato annullando il peso dei successi ottenuti dal punto di vista economico».
Ma, in questa fase politica, il Psoe non può avere chance di andare al governo da solo.
«È possibile che riponga le sue speranze nella vicepremier Yolanda Díaz, che con la nuova piattaforma Sumar costituisce l’unica vera novità nel panorama spagnolo. Una politica in ascesa, che gode di una buona popolarità e che dovrà cercare di siglare un patto con Podemos, con cui ha avuto pessimi rapporti negli ultimi mesi. Considerati i disastrosirisultati ottenuti da Podemos in queste elezioni, è possibile che a loro non resti altra scelta che unirsi a Sumar, nonostante le perplessità che possa avere Pablo Iglesias, ancora il vero leader e padrone del partito anche se ha formalmente abbandonato l’attività politica».
La Spagna, dopo oltre trent’anni, era passata da un regime bipartitico a un altro in cui convivevano 5 partiti nazionali.
Ora, con la scomparsa di Ciudadanos e la grave crisi di Podemos, si sta tornando a una situazione simile a quella del passato?
«È successa una cosa che avevo previsto. Felipe González disse una volta che stavamo adottando un sistema italiano, senza però essere italiani. Io pensavo che non ci saremmo “italianizzati”. Con il movimento degli “indignados” del 2011, e l’inizio della crisi catalana l’anno successivo, si è avviato un cambiamento politico che sembrava dovesse migliorare le cose, limitando lo strapotere di Psoe e Pp, ma in realtà non è stato così. Sia perché il bipartitismo è sempre stato imperfetto (c’erano già in passato Izquierda Unida e alcuni partiti centristi), sia perché si è dimostrata la fragilità dei nuovi attori politici, prima Ciudadanos, poi Podemos. L’impressione è che la situazione sia andata peggiorando: se la speranza era di vedere ridotto lo strapotere della partitocrazia, ci ritroviamo con formazioni politiche condizionate da una grave carenza di democrazia interna, ora più di prima».