Corriere della Sera, 30 maggio 2023
Il prezzo del Kosovo
Ci risiamo. Le chiamano le sirene della rabbia e nel nord del Kosovo, quando suonano dalle parti dei serbi, tutti sanno che cosa significano: non si deve scappare in qualche cantina, come ci fosse una guerra, ma si deve scendere in strada a protestare, come per prepararsi a una guerra che verrà.
Per chi suonasse la sirena, l’altro giorno, è apparso subito chiarissimo. A Zvecan, come negli altri comuni kosovari, i serbi hanno preso le bandiere e le hanno issate sui palazzi comunali. Poi qualcuno ha tirato fuori i ritratti di Aleksandar Vucic, il presidente serbo. E c’è stato chi ha preparato le molotov, altri i fumogeni, per cominciare la caciara. Sassaiole, scontro, cinque poliziotti albanesi feriti. L’inizio d’una nuova fase di lotta, dicono i nazionalisti della ListaSerba. L’assaggio di quel che sarà d’ora in poi: «Srbja Nade», la Serbia della speranza, la disperazione d’una minoranza che non ci vuole stare. È un balzo. All’indietro. Solo tre mesi fa, a Ocride, Vucic e il premier kosovaro Albin Kurti dicevano d’avere raggiunto un accordo (verbale) per normalizzare le relazioni fra Belgrado e Pristina. L’Ue aveva finto di crederci, molto meno i diplomatici sul campo: serbi e albanesi sono fermi ancora alla guerra del ‘99, all’indipendenza monca, e a Ocride – confida un osservatore da anni di stanza in Kosovo – «in realtà non s’è parlato di quasi niente: né della questione delle targhe, ovvero del rifiuto del kosovaro serbo d’accettare che anche la sua auto sia immatricolata a Pristina, ma neppure delle nuove amministrazioni comunali». Proprio questa è l’ultima scintilla: il voto municipale di aprile è stato boicottato dai serbi, ma sia gli Usa che Bruxelles avevano consigliato al governo kosovaro di non forzare: inutile imporre i sindaci albanesi in questo momento, pericoloso schierare le teste di cuoio a difesa dei palazzi, in questo modo si rischiava solo la guerriglia. Lo stesso Antony Blinken, il segretario di Stato americano, aveva condannato «l’irruzione violenta» e avvertito che si stava rischiando di rovinare tutto: a Washington sanno benissimo che Vucic soffia sul fuoco del Kosovo solo perché si sente le spalle protette da Mosca, e certo non è questo il momento d’aprire un altro fronte con Putin. «Questa non è democrazia», urlano i serbi kosovari: detto da chi ha sostenuto le peggiori cause nazionalistiche, fa impressione, ma nessuno si nasconde che quest’incendio si poteva evitare. Sul Kosovo la dirigenza serba, erede diretta del milosevismo anni ‘90, non ha mai smesso di giocare una partita dura, spesso sporca. Da Vucic alla premier Ana Bnabic, nessuno ha mai arretrato d’un metro nelle rivendicazioni. Tanta radicalità, alla lunga, ha provocato una reazione uguale e contraria a Pristina.
Dove la convivenza coi serbi è da sempre un semplice argomento retorico. E sempre meno s’è disposti a tollerare le spallate all’indipendenza. «Il Kosovo è serbo». «Il Kosovo è kosovaro». Finora, il Kosovo è rimasto un protettorato Nato ed europeo. E il prezzo per mantenerlo, sta diventando sempre più alto.