La Stampa, 29 maggio 2023
La lezione di don Milani
Le parole non servono solo per mettere ordine nel mondo, servono soprattutto per nominare il dolore o la gioia, la vergogna o la felicità. Ma nessuno nasce imparato, come diceva mia nonna, che non era andata oltre la quinta elementare, ma allora erano altri tempi, e poi a casa sua i libri c’erano, e di tanto in tanto andava al teatro, e i figli e le figlie li fece studiare.
Forse perché era una donna intelligente, anzi, lo era senz’altro, e aveva capito che l’educazione è sinonimo di libertà. Non conosceva don Milani, ma ne ha intuitivamente applicato i principi. E come eredità, ai figli e ai nipoti, ha lasciato il bene più grande: la possibilità di apprendere, e quindi di sviluppare talenti e aspirazioni.
A cento anni dalla nascita di don Milani – che dell’istruzione e della scuola aveva fatto il motore delle sue idee di giustizia e di uguaglianza – però, l’indagine condotta dalla Fondazione Albero della Vita mostra come, nel nostro Paese, la povertà educativa non arretri affatto. Non solo e non tanto perché si legge poco, si praticano pochi sport, e sono rare le persone che visitano il patrimonio culturale e ambientale, ma anche perché un italiano su due non è nemmeno in grado di trovare le parole giuste per esprimere ciò che prova quando gli accade qualcosa di bello. Senza parole siamo poveri. Senza parole siamo tristi. Senza parole siamo in balia di qualunque evento e di chiunque.
«Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi è già favorito. Merito è dare nuove opportunità a chi non ha», ha detto l’altro ieri il presidente Mattarella a Barbiana, in occasione dell’apertura delle celebrazioni per il centenario della nascita di don Milani. Ma come si fa a dare nuove opportunità a chi non ne ha se non si punta tutto sulla scuola? Come si può immaginare di contrastare le discriminazioni legate alla povertà culturale, che è poi veicolo di povertà completa, se l’educazione viene sistematicamente dimenticata anche quando i soldi ci sono – le risorse del PNRR sono così tante che pare non si sappia nemmeno come impiegarle – mentre la scuola perde pezzi, la scuola arranca, la scuola è vetusta, la scuola sta fallendo?
Mancano le parole, oggi. Manca la capacità di discernere e di argomentare. Mancano le basi solide di quella cultura che, prima ancora di essere privilegio, rappresenta le fondamenta stesse dell’edificio dell’esistenza.
Inutile allora stupirsi di fronte al dilagare dell’odio e degli insulti: quando non si hanno le parole per esprimere ciò che si prova, si urla; e la collera agita, oltre a mietere inutili vittime, corrode dall’interno. Leggere un libro non serve a recitare qualche dotta (e inutile) citazione; serve a viaggiare, esplorare, scoprire, immaginare, sognare, costruire. Entrare in un museo o visitare una mostra non serve a vantarsi o a discettare; serve ad aprire all’interno di sé stessi spazi infiniti di possibilità, proiettandosi verso il futuro consapevoli dei progetti che si possono portare avanti. Anche le frustrazioni e il dolore che si attraversano pesano meno quando si riesce a nominarli, creando ponti verso gli altri e verso le proprie zone d’ombra. Ma, lo ripeto, il punto di partenza è sempre e solo la scuola; e i maestri e le maestre che si incontrano; e i professori e le professoresse che hanno il potere di cambiare radicalmente il destino di una persona. Inutile persino preoccuparsi dei pericoli dell’intelligenza artificiale se poi si abbandonano tanti giovani alla propria povertà culturale, perché allora sì che si rischia grosso, sì che l’umano può sbriciolarsi.
«La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo», scriveva don Milani. «Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale». E aveva ragione, aveva perfettamente ragione. Perché il pane, la casa e il caldo sono conseguenze della cultura, ossia della capacità di pensare, di criticare, di argomentare e di parlare. Le parole sono tutto. Ciò che non viene nominato non esiste nemmeno. —