La Stampa, 29 maggio 2023
Gian Carlo Caselli parla delle stragi
Se la mia scrittura si avvicinasse almeno un po’ a quella «netta, chirurgica, realistica» che Andrea Camilleri attribuisce (nel libro “Come la penso") al giudice Dante Troisi, la nomina del presidente della nuova Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo, saprei forse descriverla con qualcosa di più rispetto alle semplici parole – incredulità e sconcerto – che la vicenda mi suggerisce.
Lasciamo perdere la vecchia storia della “moglie di Cesare”. Lasciamo perdere la mancanza di esperienza specifica perché (a voler essere generosi) non si nasce “imparati”. Lasciamo perdere la presuntuosa sovrapposizione della nomina all’anniversario di Capaci. Lasciamo stare la strampalata tesi che la Commissione non avrebbe nessuna rilevanza. Prendiamo invece le forti critiche sollevate da una lettera dei familiari delle vittime, indignata quanto argomentata, pubblicata dal “Fatto”; cui sono seguite le proteste – in perfetta sintonia – di Salvatore Borsellino, Giovanni Impastato, Paolo Bolognesi (strage della stazione di Bologna), Manlio Milani (strage di piazza della Loggia a Brescia) e di Libera, l’Associazione di associazioni che coinvolge migliaia e migliaia di persone.
Perché non tenere nel dovuto conto queste prese di posizione, che esprimono trepidazione e dolore per tragedie ancora vive nel ricordo, e nel contempo rimaste spesso senza risposte di verità e giustizia, significa di fatto dare prova di scarsa sensibilità e di indifferenza, come se qualcuno fosse anacronisticamente tentato di riesumare il cliché del “noi tireremo diritto”.
Un’antimafia “penitenziale” che dia sofferenza ai familiari delle vittime sarebbe un ben strano ircocervo. Anche per una certa incoerenza col conclamato e lodevole proposito di ispirarsi alla memoria di Paolo Borsellino, posto il suo monito che la lotta alla mafia deve essere un movimento che “coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà” contrapponendosi anche alla “indifferenza”. La mia esperienza professionale mi ha portato a incrociare varie Commissioni parlamentari antimafia, ora positivamente ora no. Per esempio la Commissione Violante approvò (sostanzialmente alla unanimità) una Relazione sui rapporti tra mafia e politica che esprime valutazioni e giudizi di forza tale che mai si era sentita prima né mai sarà ripetuta dopo. Di speciale interesse la distinzione fra responsabilità penale e politica. La seconda «si caratterizza per un giudizio di incompatibilità fra una persona che riveste funzioni politiche e quelle funzioni, sulla base di determinati fatti, rigorosamente accertati, che non necessariamente costituiscono reato, ma che tuttavia sono ritenuti tali da indurre a quel giudizio di incompatibilità. La responsabilità politica richiede precise sanzioni, rimesse all’impegno del Parlamento e delle forze politiche, e consistenti nella stigmatizzazione dell’operato e nei casi più gravi nell’allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Principi che – se fossero sempre applicati con coraggio e rigore – aggredirebbero le radici stesse di quel male che Dalla Chiesa definiva il polipartito della mafia.
Francesco Forgione fu autore di una Relazione specificamente mirata sulla ’ndrangheta: pagine motivate con rigore sulla presenza della ’ndrangheta al Nord e sul suo intreccio torbido con pezzi dell’amministrazione e della politica, realtà a quel tempo ancora ostinatamente negate con miope disinvoltura da fior di politici e commentatori. Rosy Bindi, dando una prova straordinaria di vicinanza e attenzione, riunì la Commissione in un bar di Torino sequestrato alla ‘ndrangheta dove venivano programmate le attività delinquenziali delle ’ndrine.
Per contro il presidente dell’antimafia Roberto Centaro arrivò al punto di sostenere pubblicamente, all’indomani della sentenza della Corte d’appello di Palermo nel processo Andreotti, che «il grande dibattito mediatico che si è sovrapposto e ha sostituito il processo», ha portato «a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato (corsivo mio) dalle pronunce giurisdizionali».
In queste parole la verità non era per niente di casa. Tant’è che il presidente della sezione che aveva pronunciato la sentenza, poi confermata in Cassazione, che dichiarava Andreotti responsabile del reato di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo commesso fino all’estate 1980 (reato commesso, anche se prescritto), si sentì obbligato a prendere posizione con un duro comunicato Ansa – cosa a mia memoria mai successa – con il quale le fantasiose tesi del senatore Centaro venivano respinte con argomentazioni inattaccabili, mentre il disinvolto “innocentista” veniva invitato… a leggersi la sentenza.
Tirando le fila, si vede bene che il presidente della Commissione antimafia, per essere adeguato e non deludere le migliori aspettative, deve avere caratteristiche che ne garantiscano la capacità di resistere alle ragioni di fazione che cercassero di insinuarsi nella sua attività. Con totale autonomia rispetto a chi volesse farle valere. —