La Stampa, 29 maggio 2023
I poteri di vigilanza
Sono tempi duri per le democrazie pluraliste. La polarizzazione della dialettica politica rende ancora più difficile che in passato per le maggioranze di governo accettare quei limiti al potere che di tali democrazie costituiscono l’essenza.
Limiti che servono ad evitare gli abusi dei governanti e le derive autoritarie: in definitiva, a proteggere i diritti di tutti, inclusi quelli delle minoranze, e lo stesso carattere pluralista dell’ordinamento.
Ne è una riprova il dibattito italiano di questi ultimi mesi: quante volte abbiamo sentito dichiarazioni di esponenti della maggioranza politica volte a criticare pesantemente gli interventi delle istituzioni di garanzia, e finanche a proporre riforme per circoscrivere i poteri di vigilanza di queste ultime. L’elenco sarebbe lungo: dalle reazioni ai rilievi dell’ufficio parlamentare di bilancio sulla riforma tributaria a quelle alle esternazioni del presidente dell’autorità anticorruzione sul codice degli appalti, dalle reazioni al rapporto del servizio bilancio del Senato sugli effetti dell’autonomia differenziata a quelle, recentissime, agli interventi della Corte dei conti sull’attuazione del Pnrr.
Reazioni che rievocano attacchi più o meno espliciti, in un passato poco lontano, a Corte costituzionale, Banca d’Italia, Istat.
La tendenza di chi ha vinto le elezioni a cercare di svincolarsi dai limiti giuridici, spesso vissuti come inutili lacci e lacciuoli, che impediscono agli eletti dal popolo di portare avanti il proprio programma politico, è sempre in agguato. Già alla fine del 1700 lo avevano sottolineato i fondatori della democrazia statunitense: si potrebbero ricordare le celebri parole di Madison (Federalist n. 51), laddove diceva che, se gli uomini fossero angeli, non ci sarebbe bisogno di un «governo limitato».
Ma siccome non è così, ecco allora la necessità di checks and balances. Una necessità divenuta ancora più evidente nel corso del 1900, quando i compiti dello Stato si sono dilatati enormemente per rispondere all’esigenza di assicurare la protezione dei diritti sociali. E quando si sono toccate drammaticamente con mano le conseguenze di un potere illimitato, autogiustificato dalla investitura popolare, come hanno mostrato i totalitarismi del ventesimo secolo, fonti di immani tragedie e di violazioni inusitate della dignità umana.
Proprio per questo, il principio della separazione dei poteri, cardine dello Stato di diritto fin dal suo sorgere, nell’epoca delle rivoluzioni americana e francese, è venuto assumendo a partire dalle costituzioni del secondo dopoguerra una nuova declinazione: agli organi della decisione politica, che traggono la loro legittimazione dal popolo, attraverso le elezioni, si affiancano istituzioni definite “non maggioritarie”, ovvero sottratte al controllo delle maggioranze politiche, composte da esperti e chiamate ad adottare decisioni motivate.
Tra queste, accanto ai giudici e alle corti costituzionali, sono andate emergendo nelle costituzioni più recenti (a partire da quella del Sudafrica post-apartheid, del 1996) numerose autorità indipendenti, chiamate a vigilare sull’azione di governo in molteplici campi: banche centrali, commissioni elettorali, ombudsman, autorità anticorruzione, autorità di garanzia delle comunicazioni, uffici di bilancio, istituti di statistica, controllori dei conti.
La scelta di delegare taluni poteri a istituzioni indipendenti di questo tipo risponde al bisogno di garantire trasparenza all’operato dei poteri dello Stato e di sottrarre determinati compiti al potere politico, nell’intento di assicurarne una gestione neutrale. Se la loro costituzionalizzazione è avvenuta soprattutto nelle nuove democrazie, ove tali autorità sono state viste come strumenti di consolidamento e protezione delle conquiste ottenute con la transizione, esse sono state via via introdotte anche nelle democrazie consolidate. L’esigenza di affiancare al controllo democratico, svolto dalle opposizioni politiche e dagli elettori, altre forme di controllo sull’esercizio del potere, specie in campi altamente tecnici e complessi, è sempre più diffusa. È infatti assai difficile che i cittadini, o le stesse opposizioni, e persino i mass media, possano disporre di informazioni adeguate sull’operato del governo, se non esistono autorità indipendenti che siano in grado di fornirle loro.
Non è un caso che, laddove sono in atto processi di regressione democratica (particolarmente evidente è il caso dell’Ungheria), tali istituzioni siano sotto attacco, proprio come il potere giudiziario e le giurisdizioni costituzionali, attraverso riforme volte a depotenziarne i poteri o a minarne l’indipendenza.
Se la maturità di una democrazia si misura attraverso la forza e il radicamento del principio di lealtà istituzionale (quella «leale collaborazione» della quale ha parlato nei giorni scorsi Donatella Stasio su questo giornale), il rispetto dell’indipendenza e dell’operato delle autorità di garanzia da parte delle maggioranze governative costituisce oggi un terreno di prova al quale la democrazia italiana non può sottrarsi. —