la Repubblica, 29 maggio 2023
Intervista a Raf
La casa di Raf non ha nulla di immobiliare. È un’idea abitabile «fatta di musica, amore e strada, grande quanto il pianeta. Stiamo bene solo se stanno bene tutti» dice Raffaele Riefoli (vero nome), classe 1959, pugliese di Margherita di Savoia.La mia casa è il prossimo disco, anticipato da 80 voglia di te,in uscita il 26 maggio, e il titolo del tour con i suoi successi (Ti pretendo, Gente di mare, Il battito animale, Due, Sei la più bella del mondo, alcuni già rimasticati dai rapper, incluso Guè).Ed è anche un libro edito da Mondadori dove Raf narra la sua lunga avventura musicale.Autore pop, pronipote del rock, figlio del punk e cugino dei cantautori. Si ritrova in questa definizione?«Sì, ho vissuto la musica nelle sue forme più esaltanti, dopo aver visto i Beatles in tv. A 11 anni mi esibivo a matrimoni e comunioni. Alle Feste de l’Unità suonavo rock progressive con un gruppo di capelloni. Cercavamo i nostri simili per ascoltare insieme i vinili. A Barletta, pur di improvvisare con sitar e tablas, diventammo adepti di un indiano metropolitano».Musica e saline, dove suo padre lavorava da operaio. Un mix psichedelico?«Ascoltavo i Pink Floyd e guardavo il tramonto sulle dune di sale arrossate. Sembrava un viaggio su Marte. Per salvarmi dalla noia, dovevo sognare lontano».A 17 anni partì per Firenze in autostop. I suoi come la presero?«Male. Si lasciava il paese semmai per andare all’università, e comunque ospiti da un parente emigrato. Io in città non conoscevo nessuno. Tranne una ragazza dalla personalità incredibile».Del tipo?«All’epoca c’era uniformità nel distinguersi: a sinistra quelli con eskimo e sciarpa rossa, a destra i “sanbabilini” con giacca di pelle e occhiali Ray-Ban. Lei invece era un carro di carnevale. Libera da schemi.La storia non durò. Vagando su Ponte Vecchio incontrai Ghigo Renzulli.Prima dei Litfiba, formò con me i Cafè Caracas».Un fricchettone convertito al punk?«Il rock si stava avvitando sui tecnicismi. Mi piaceva l’idea che bisognasse suonare male per tornare a una sorta di purezza. Il mio nome d’arte era Rip, come Rip Kirby, stiloso detective di un fumetto americano anni Quaranta».1 giugno 1980, a Bologna apriste per i Clash. Nel backstage incontrò Joe Strummer.«Mi disse che credeva ancora nelle rivoluzioni. Gli interessava la contestazione in Italia, gli spiegai le differenze con quella inglese. Qui c’era la deriva del terrorismo. Poi sul palco schivammo le lattine. Oggi fa sorridere, ma per qualcuno i Clash diLondon calling avevano tradito l’anarchia».Nel 1984 con “Self control” diventò star internazionale della disco. Come la visse?«Mi creò traumi psicologici. Non sostenevo il compromesso. Mi nascondevo. La mia coscienzadiceva: ma non ti vergogni di fare musica dance? L’ho capito dopo che il brano è un piccolo capolavoro».In “80 voglia di te” torna a quelle sonorità. Lo fanno in tanti.«La trap sfuma e gli Ottanta fanno tendenza. Io mi diverto, però canto: “E se penso adesso a quanto siamo soli, in mezzo alle luci del sabato sera”. Vedo tanta solitudine».Parlava di un tragico rondò già in “Cosa resterà degli anni 80”, no?«Era un sollievo cantare d’amore senza risultare deprecabile come nei Settanta, però il benessere economico era mal gestito.L’individualismo ha presentato il conto».Si sposò a Cuba. Nel periodo del movimento No global scrisse “Jamás” su Che Guevara.«Fu un grande sogno di libertà. Ma anche un rivoluzionario così, è diventato oggetto di consumo, finito sulle spillette come Marilyn. E come il punk».Ha avuto il tempo per vivere la delusione di ogni utopia?«Non mi sorprendo. Io stesso non sono la coerenza assoluta, ma non ho mai tradito i valori intoccabili, e cerco di insegnarli ai miei due figli».Quali sono?«Esistere sulla terra in modo sostenibile, accogliere qualsiasi diversità. Non impongo il mio modello di famiglia e non mi sento aggredito dai migranti. Se c’è un problema di sicurezza, non si risolve alzando muri o negando porti sicuri».Scrive che la sua generazione ha spinto il futuro giù da una rupe. Dove ha sbagliato?«Si è sottratta ai suoi ideali per qualcosa che è ancora più selvaggio e violento del capitalismo iniziale. Non c’è più una visione del futuro. I ragazzi sono più responsabili di noi sui temi ecologici e sposano una causa giusta. Mi auguro che non diventeranno imprenditori inquinanti».«Con la morte di Bowie è finito il Novecento e il mito degli anni Settanta»: che intende?«Quella supernova ha reso la mia generazione parte di un’esplosione di luce. Dopo, la musica non ha prodotto cose altrettanto interessanti. Per me Bowie è stato un alieno. Come i Beatles. Ogni tanto gli extraterrestri atterravano, era un’emozione che quasi non riuscivo a reggere».Non crede più nel rock?«Con dispiacere penso che difficilmente rappresenterà la musica del futuro. Suona datato, allora meglio gli originali».