la Repubblica, 29 maggio 2023
Erdogan ventun anni dopo
Ventunanni dopo, la Turchia ricomincia da Recep Tayyip Erdogan. Il quasisettantenne presidente uscente si riconferma con margine stretto ma chiaro contro lo sfidante Kemal Kilicdaroglu.
Beffeggiato al grido di «Bye bye Kemal» dalreisrieletto con il 52% dei voti davanti alla folla di fedeli che lo idolatravano presso la sua residenza di Istanbul. Dopo la riconquista della maggioranza in Parlamento con la formazione islamista Akp, il 14 maggio, è completa ormai la vittoria del “sistema Erdogan”: presidente più partito, Stato profondo e clienti vari, dentro e fuori la Turchia, tra cui spicca il “fratello” leader dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, primo a congratularsi con lui.
Il ruolo degli apparati è stato come sempre essenziale. La mannaia della magistratura che pende sul popolare, brillante (e altrettanto islamista) Ekrem Imamoglu ha tolto di mezzo l’unico candidato in grado di minacciare l’uscente, in attesa che i più giovani, come Selçuk Bayraktar, possano emergere. Erdogan permettendo. Quanto a Kilicdaroglu, ha fatto quel che doveva fare, forse un filo più del previsto. Era il candidato di opposizione ideale per Erdogan: perdente nato, certamente non carismatico.
La prima cosa che a occhi italiani e occidentali colpisce in questo voto turco è l’ininfluenza a quelle latitudini di fattori per noi determinanti, come l’economia, la pace e la salute. Malgrado i magheggi di breve termine della Banca centrale la lira resta ai minimi contro il dollaro, i prezzi schizzano in alto ogni giorno di più, il commercio con l’estero risente del poco esaltante clima internazionale. Soldati turchi sono impegnati in operazioni in varie regioni del Medio Oriente e del Nordafrica, dagli esiti incerti. Sessantamila turchi hanno perso la vita nel recente terremoto, il più violento della storia nazionale, che ha evidenziato le crepe di un’edilizia selvaggia. Per non farsi mancar nulla, Erdogan ha bollato gli oppositori “partiti Lgbt”. Da noi un candidato che si fosse presentato con questo bollettino di insuccessi, irridendo senza vergogna (anzi!) a una quota della popolazione per le sue inclinazioni sessuali, ben difficilmente avrebbe potuto farcela. In Turchia invece sì. Perché? Questione di storia, mentalità, cultura.
La Repubblica Turca, di cui il 29 ottobre Erdogan celebrerà in pompa magna il centenario, vive oggi una stagione di espansione imperiale che esalta le aspirazioni di gloria di buona parte della popolazione (compresi molti elettori di Kilicdaroglu). Semplicemente, i turchi si sentono finalmente tornati al rango di grande potenza, non più goduto dal crollo del sultanato/califfato, nel 1922, che ridusse il loro spazio all’Anatolia più uno spicchio di Tracia. La sfera d’influenza turca si estende variamente dai Balcani – tra cui la nostra dirimpettaia Albania – al Levante e al Medio Oriente, fino all’Asia centrale.
Sempre con un occhio al Turkestan orientale, il Xinjiang cinese su cui si esercita la repressione di Pechino.
Nel triangolo Stati Uniti-Cina-Russia Erdogan si muove da elettrone libero.
Mentre si guarda bene dall’abbandonare la Nato, rifiuta di sanzionare la Russia e gioca a carte scoperte con la Cina. Non esiterà quindi a muovere le sue truppe in Siria, a offrire non gratuite sponde a Putin, a gestire un’altra inevitabile crisi con Biden.
Poco ma sicuro: dopo la sua rielezione, Erdogan riprenderà con maggior slancio la sua geopolitica attiva. I vicini sono avvertiti. E, per chiarezza, vicini siamo anche noi. Nel caso qualcuno avesse rimosso che i turchi si affacciano da Tripoli sullo Stretto di Sicilia. Ma si sa, noi siamo diversi.