Corriere della Sera, 29 maggio 2023
I pendolari e i treni che non vanno
I pendolari, quotidiani ostaggi di treni che, per un motivo o per un altro, di arrivare in orario non ne vogliono sapere. Ma cosa c’è dietro? Convogli diesel, il 43% con più di 15 anni e a binario unico. E così, ogni giorno 700 mila lavoratori rifiutano di salirci.
Per rendere la mobilità sostenibile, e dunque ridurre l’inquinamento prodotto dalla congestione del traffico, esiste una sola possibilità: offrire un’alternativa all’auto. Soprattutto in un settore chiave, i treni regionali. Per i milioni di pendolari che ogni mattina si riversano nelle città e devono raggiungere in orario il posto di lavoro, scuola e università, i treni devono essere efficienti e affidabili. A che punto siamo in questa transizione? Sui treni regionali, tra 2009 e 2019, in Campania i passeggeri sono crollati da 400 mila, a 250 mila al giorno; tendono a diminuire i 500 mila del Lazio; in Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto sono cresciuti un po’. La Lombardia è un caso particolare: nello stesso decennio i viaggiatori sui regionali erano passati da meno di 600 mila, a 820 mila al giorno (trascinando una crescita complessiva nazionale di circa l’1% l’anno). Nel 2022 però sono scesi a 630/650 mila al giorno, circa 200 mila in meno rispetto al 2019. E attenzione: quel numero si riferisce al trasporto ferroviario di tutta la Lombardia. A confronto, solo a Milano, da fuori Comune entrano oltre 700 mila macchine al giorno.
La controrivoluzione
Il dato della Lombardia è rappresentativo: quella sui treni regionali è la porzione della mobilità che in tutto il Paese stenta di più a recuperare i livelli pre-pandemia. I passeggeri erano in tutto 3 milioni al giorno nel 2019: dopo il crollo del 2020, con la ripresa del 2022 sono risaliti a 2,3 milioni (nei primi tre mesi dell’anno c’era ancora qualche limitazione). Ancora il 23 per cento in meno. L’uso dell’auto, invece, è aumentato. L’Italia, dunque, è uscita dal Covid con una sorta di controrivoluzione nella mobilità sostenibile. Dietro a questo numero non c’è solo lo smart working, che ha indubbiamente ridotto una quota di spostamenti, ma questioni più strutturali. Ci sono undicimila chilometri di ferrovie (il 56 per cento) a binario unico. Quasi 6 mila chilometri (il 29 per cento) ancora con treni diesel. Le infrastrutture più «scadenti» riguardano quasi esclusivamente i collegamenti regionali, e soprattutto al Sud. Se dai binari si passa ai treni, il 43 per cento dei quasi 2.800 convogli regionali ha più di quindici anni, con punte di «anzianità» sopra il 70 per cento in Calabria e Campania.
Nella quotidianità questo quadro si traduce in una serie di guasti, ritardi e soppressioni che tormentano la massa dolente dei pendolari. Che se devono arrivare puntuali al lavoro, rivalutano l’auto. Ed è proprio quel che è accaduto: una parte di chi aveva ripreso a spostarsi in macchina durante il Covid, non sta tornando al treno. Se questa è la conseguenza, le cause sono più antiche.
Il cavallo e l’elefante
Il rapporto «Pendolaria» 2023 di Legambiente mostra che il monte di trasferimenti dallo Stato alle Regioni per il trasporto pubblico s’è ridotto di oltre un miliardo rispetto al 2009 (da 6,2, a 5,1 miliardi nel 2023), con le Regioni stesse che per i servizi ferroviari, in media, spendono meno dello 0,6 per cento del bilancio. Oltre alle province autonome di Trento e Bolzano, l’unica regione che impegna più dell’1% è la Lombardia. Legambiente calcola inoltre che tra 2010 e 2020 siano stati costruiti 78 chilometri di ferrovie nazionali e regionali (esclusa l’alta velocità). Nella stessa decade, i chilometri in più di autostrade sono stati 310.
Certo, il sistema ferroviario non è rimasto immobile, ma è cresciuto su due strade: da una parte camminava un elefante, dall’altra galoppava un cavallo. Basta vedere lo sviluppo dell’alta velocità: i passeggeri di Trenitalia sono saliti da 6,5 milioni del 2012, a 47 milioni del 2019; nello stesso periodo quelli di Italo sono passati da 4,5 milioni a 20,1. La flotta dei treni super veloci è quasi raddoppiata. Di fatto c’è quindi una separazione fra i tre mondi delle ferrovie: quello superiore (e redditizio) dell’alta velocità, il mondo di mezzo (gli Intercity) è già serie B, e in fondo c’è quello sommerso dei regionali.
I tre mondi delle ferrovie
Per comprendere quanto siano lontani i tre mondi, si può fare un esperimento. Fate conto di trovarvi davanti al tabellone delle partenze, alla stazione di Napoli Centrale, alle 8 del mattino (i dati sono frutto di prove di acquisto di biglietti per il 2 maggio scorso). Mettiamo che dobbiate andare a Roma. Il Frecciarossa parte alle 8.09; alle 9.25 è nella Capitale: 220 chilometri, un’ora e 16 minuti, costo 38,9 euro. Poniamo invece che dobbiate raggiungere Bari: partenza alle 8.12, su un regionale. Non avete scelta. Dovrete scendere a Caserta, cambiare treno, e sarete a Bari alle 12.11. La distanza è maggiore di soli 30 chilometri, ma il viaggio dura 2 ore e 43 minuti di più. In sintesi: Napoli-Roma in un’ora e 16; Napoli-Bari in 3 ore e 59. Ci sarà un risparmio? No. In Economy, il Napoli-Bari costa 43,6 euro, 4,7 euro in più del Frecciarossa per Roma. Esiste almeno un diretto nel corso della giornata? No. E questa è la distanza tra i primi due mondi.
Il terzo mondo si vede restando a Napoli: sbarcano i pendolari che per poco più di 40 chilometri, tipo un Nocera Inferiore-Napoli o Sorrento-Napoli, impiegano da un’ora, a un’ora e 20. Quando va bene. Perché i 142 chilometri delle ex linee circumvesuviane sono da anni nella classifica delle peggiori tratte italiane nel rapporto «Pendolaria». Poter contare su un treno (abbastanza) puntuale è decisivo per chi deve raggiungere uffici o scuole. In Lombardia, che pure ha il servizio più esteso d’Italia, a febbraio scorso 9 linee su 42 non hanno rispettato lo standard di affidabilità per numero di treni soppressi e ritardi sopra i 15 minuti.
In 20 anni 7 milioni di auto in più
Definito il quadro dei treni, consideriamo le alternative. Napoli-Bari in autobus costa 12 euro, il viaggio dura 3 ore. Con una decina di euro in più rispetto al treno (35 di benzina e 20 di pedaggio) si arriva a Bari in macchina in 2 ore e mezza. Dunque, autostrada batte ferrovia. E questo è il risultato: rispetto a 20 anni fa, in Italia circolano in più 7 milioni di auto e 2 milioni di moto e motorini. Eccola, la contro-rivoluzione, sta dentro al «19° Rapporto sulla mobilità degli italiani» dell’Isfort: nel 2021 il tasso di motorizzazione è salito a 67,2 veicoli ogni 100 abitanti (66,6 nel 2020)». Reggio Calabria, Catania e Firenze hanno più di 70 auto ogni 100 abitanti; Roma, Bologna, Torino, Palermo e Napoli sono sopra 60. A Madrid circolano 48 auto ogni 100 abitanti, a Londra 36, a Berlino 35. E non è solo un fatto di senso civico, ma di investimenti e strategie. I servizi efficienti attraggono passeggeri, quelli scadenti arrancano. Valeva già prima, ma la pandemia ha aggravato il divario: sul totale degli spostamenti nelle aree urbane in Italia, nel 2022 l’uso dell’auto è salito al 64% (più 1,5 rispetto al 2019), quello di tutti i trasporti pubblici arriva al 7,6 (-3,2). Le stime sono contenute nell’allegato all’ultimo Documento di economia e finanza del governo. La promessa, e la speranza di una trasformazione della mobilità, è affidata al Pnrr.
Speranza Pnrr
Tra investimenti già avviati e Piano europeo ci sono circa 53 miliardi dedicati a infrastrutture e trasporti ferroviari. La maggior parte (38) andrà all’alta velocità: quasi 5 miliardi per Napoli-Bari, Palermo-Catania e Salerno-Reggio; poi i grandi collegamenti con i corridoi del Nord Europa. Sono previsti anche quasi 10 miliardi per le linee secondarie: 700 milioni per le stazioni al Sud, 800 per nuovi treni, 2,5 miliardi per le infrastrutture. Soldi da spendere entro il 2026. Un tempo incompatibile con i nostri processi amministrativi, che vanno riformati, ma ancora nessuno ci ha messo mano. Se continuiamo a perdere tempo buona parte di questi fondi verranno depennati.