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 2023  maggio 29 Lunedì calendario

Il potere infinito di Erdogan (e le sue colpe)

Ha imprigionato scrittori, generali, giornalisti, blogger. Ha tentato di soffocare passo dopo passo la laicità su cui è stata costruita la Turchia moderna. Si è messo contro le grandi città: Istanbul di cui era stato sindaco, Izmir (Smirne) che l’ha sempre osteggiato, Ankara offesa dalla costruzione del suo sardanapalesco palazzo. Ha gestito male la tragedia del terremoto. Non è riuscito a entrare nell’Unione europea, anzi con molte scelte – dalla persecuzione dei curdi al dialogo con i peggiori satrapi – si è chiamato fuori dall’Occidente. Non ha saputo frenare l’inflazione, oggi in Turchia a livelli drammatici, tanto che è difficile pure comprare un’automobile, divenuta un bene rifugio: chi se ne accaparra una la rivende dopo pochi mesi per trarne profitto.
Allora, perché?
Perché, dopo oltre vent’anni di potere, Recep Tayyip Erdogan è stato rieletto per l’ennesima volta, sia pure di misura, in modo non certo trionfale?
Intendiamoci: elezioni che si tengono con la stampa imbavagliata e i dissidenti in galera non sono davvero libere. Erdogan non si può considerare un leader democratico, quanto un autocrate.
Eppure non è che la maggioranza dei turchi sia incapace di intendere e di volere. Né può essere considerata vile e conformista: se c’è un popolo indomabile e coraggioso, formidabile in pace e in guerra fino alla spietatezza, è il popolo turco. Che è anche un popolo nazionalista, più ancora di altri.
Il motivo è scritto nella geografia e nella storia: la penisola anatolica è il ponte naturale tra Asia ed Europa, crocevia e terra di passaggio, sede di un impero dai tempi di Costantino; e i turchi, che a Costantinopoli entrarono quasi sei secoli fa, dopo aver vissuto l’apogeo e la decadenza hanno dovuto lottare duramente per non essere spazzati via. Certo hanno commesso crimini, ai danni degli armeni, dei curdi, dei greci; ma altre volte ne sono stati vittima, e tuttora popolazioni turcofone dell’Asia centrale dopo aver subito il giogo russo devono sottostare a quello cinese.
Erdogan, piaccia o no – e a noi europei non piace —, per oltre metà dei turchi è l’uomo che ha riportato il loro Paese al centro del mondo. Prima di lui comandavano i generali. Il sistema politico era debole e frammentato. Mustafà Kemal detto Atatürk aveva trasformato un impero in uno Stato, e fatto della Turchia una nazione laica aperta all’Occidente. Erdogan ha disfatto quel capolavoro, e non a caso i commercianti di Istanbul, Smirne, Ankara espongono il ritratto del Padre dei Turchi anche in implicita polemica con l’attuale presidente. Eppure in questi vent’anni molti, in particolare i ferventi musulmani ma non solo, hanno avuto la sensazione che grazie a lui il loro Paese sia tornato a contare. Si sia affrancato dall’egemonia americana. Abbia dialogato alla pari o quasi con i grandi della terra. E abbia usato la mano dura con i nemici o con quelli considerati tali, a cominciare dai curdi; e il fatto che il rivale Kiliçdaroglu fosse sostenuto anche da loro non l’ha aiutato al ballottaggio.
In questo ventennio la Turchia si è affermata come potenza su tutti gli scenari, dall’Africa all’Asia centrale, oltre che in Medio Oriente. Ha mosso il suo esercito, a volte in modo inaccettabile, altre volte rafforzando il ruolo nazionale. Si è data un’industria della difesa che esporta droni in molti Paesi. Si è digitalizzata: pressoché tutti i turchi hanno un’identità Spid, anche per questo non sono i brogli a decidere le elezioni. La compagnia aerea, la Turkish, e l’aeroporto di Istanbul sono tra i più grandi al mondo.
Poi certo Erdogan ha impresso al sistema una torsione personalistica. Ha violato libertà e costruito un’autocrazia; altro che «Dc islamica», come si erano illusi i commentatori. Ma ha dialogato con Merkel e con Xi, con i «nemici» Netanyahu e Bin Salman (da cui lo ha diviso la Libia), ha tenuto testa a Putin – con alterne vicende – e agli ayatollah, è stato un interlocutore per quattro presidenti americani e quattro francesi. E se metà Turchia continua a sostenerlo, è anche perché uno Stato per contare nel mondo moderno ha bisogno di un leader. Kiliçdaroglu avrebbe riavvicinato Ankara all’Occidente, con positive ricadute economiche; ma leader non è stato considerato. È giusto non avere nessuna simpatia ed essere duri con Erdogan, ma pure riconoscere che lui – alto, carismatico, stretta di mano calda da pranoterapeuta, lento nelle movenze, spietato nell’azione – leader lo è.