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 2023  maggio 28 Domenica calendario

I potenti al tempo di Giorgia. estratto del libro di Luigi Bisignani e Paolo Madron

Il virus dell’intelligence colpisce ancora. Nella ristretta cerchia della premier raccontano della sua infatuazione per i Servizi segreti da quando e entrata a Palazzo Chigi.
«Ogni giorno le noticine che le arrivano su amici e nemici la mandano in visibilio ed esaltano quel tratto di personalità machiavellica che non le fa difetto».
Meloni vede complotti e intrighi dappertutto, e in questo i Servizi stuzzicano le sue fantasie.
«Non tanto diversamente da alcuni suoi predecessori che, non avendo dimestichezza col potere, sono finiti per cadere invischiati nei loro giochi».
Ma non sarà che questo evocare trame e cospirazioni dietro ogni cosa e un po’ esagerato? Basta una narrazione, magari spruzzata di mistero e ripresa da qualche sito di gossip compiacente, per incantare i presidenti del Consiglio?
«I politici scafati, come si dice scherzosamente a Roma, li considerano dei cazzari, sanno benissimo che le barbe finte fanno mille pastette, e i neofiti ne subiscono il fascino».
Eppure Giorgia mi sembra più che scafata, una che non si lascia incantare dalla prima storiella che le raccontano.
«Scafatissima. Ma il retaggio degli anni della sua gioventù non è facile da accantonare. Da giovane militante ha avuto rapporti controversi con la polizia, ora osserva il mondo dalla parte opposta. Coloro che le danno le informazioni riservate sono quelli da cui in passato si e dovuta guardare le spalle».
Le guardie, come le chiamavano quelli del Fronte della gioventù, dalle quali scappavano quando di notte uscivano per le affissioni dei manifesti ciclostilati in proprio.
«Lei stessa racconta degli attacchinaggi, quando bisognava restare sempre in gruppo, attenti alle retate dei celerini e agli agguati delle zecche, come definivano i comunisti».
Però ne e passato di tempo da allora. Quelle paure se le sarà lasciate alle spalle. O la sua diffidenza verso gli altri e atavica e senza speranza? Fatte salve mamma e sorella, naturalmente.
«Ormai il suo mantra quando incontra le persone e sempre lo stesso: “Aho, me posso fida’ o no?”. E alla fine del colloquio: “Guarda che me fido"».
Anche per Giuseppe Conte i Servizi sono stati come una droga. Nel febbraio del 2021, in articulo mortis, gli sarebbe bastato lasciare quella delega al suo famiglio Mario Turco, pugliese come lui, affinché Renzi, soddisfatto di quel passo indietro, non riuscisse a cacciarlo.
«Degli ultimi presidenti del Consiglio, Giuseppi è stato il più ossessionato dall’intelligence. Coscienti del potere che esercitavano sul premier, le barbe finte lo riempivano di notizie confidenziali su vicende personali o qualche gossip relativo a suoi amici o avversari».
Infatti collocò un suo caro amico, Gennaro Vecchione, a capo del Dis, il Dipartimento informazioni e sicurezza che addirittura coordina le agenzie dei Servizi interni (Aisi) ed esterni (Aise). Una potenza...
«Salvini lo inquadrò subito, mettendo nel mirino Vecchione per le sue scorribande mondane e un certo debole per le belle donne. Immancabile ospite delle terrazze romane e delle feste più gettonate, come quella per il Sigaro toscano a Villa Letizia, sontuosa location sugli argini del Tevere»...
Oggi al posto di Vecchione al Dis c’è Elisabetta Belloni, nominata da Mario Draghi, con il quale in tempi diversi ha frequentato l’Istituto Massimiliano Massimo, la severa scuola dei gesuiti a Roma che ha visto tra i suoi banchi anche Luca di Montezemolo e il superprefetto Gianni De Gennaro.
«La chiamavano Betty, era molto amata anche perché, da 007 in fieri, passava i compiti in classe senza farsi scoprire e faceva la ragazza pompon durante le partite di calcio dei suoi compagni».
Conte ha preso il cambio al vertice del Dis come un affronto personale e non ha mai perdonato Draghi, che considera un usurpatore. In più, l’autorità delegata alla sicurezza della Repubblica fu affidata al prefetto Franco Gabrielli, nel segno di un opportuno cambio di strategia.
«Era necessario, almeno in apparenza, rimettere ordine. L’ambasciatrice Belloni, del resto, è la figura perfetta per la politica. Ma a settembre del 2023 potrebbe andare in pensione e, a meno di sorprese, uscire definitamente dai radar istituzionali. Fintanto che c’è Meloni, pero, non la tocca nessuno, e chi ha provato a metterla ai vertici di qualche partecipata, come per esempio Leonardo o Eni, è stato incenerito».
Il primo a scoprirla fu Giovanni Castellaneta, consigliere diplomatico nel governo guidato da Silvio Berlusconi.
«La voleva come capo ufficio stampa esteri, ma ci fu il veto dell’indimenticabile portavoce dell’epoca, Paolino Bonaiuti: “Non va bene una donna così bella e charmante a Chigi"»...
Ma oggi come sono realmente i rapporti tra Belloni e Meloni?
L’intesa si è consolidata molto tempo prima che Meloni diventasse premier. All’inizio era molto diffidente sui Servizi, mentre oggi ne apprezza l’utilità. C’è un passaggio sull’elezione del presidente della Repubblica nel gennaio del 2020 che nessuno ha mai raccontato».
Raccontiamolo, allora.
«Meloni, dopo la quarta votazione, pensò di candidare Belloni, prima ancora che Salvini ne facesse il nome. Ne parlò riservatamente con Anna Maria Bernini e Antonio Tajani. Anzi, fu la stessa Giorgia a convincere Conte, contrarissimo alla rielezione di Mattarella, a convergere sul capo del Dis. Era stato sondato anche Gianni Letta che, come detto, è da sempre affascinato dai modi avvolgenti e suadenti di Belloni».
Ma alla fine, con così tanta stima e supporto, come mai non e atterrata al Quirinale?
«L’errore di non dichiararsi subito indisponibile le è stato fatale. È andata in campagna ma, anziché isolarsi e fare il cincinnato, si è lasciata coinvolgere in un vorticoso giro di telefonate, finendo uccellata da Renzi con il famoso anatema che “un capo dei Servizi non può fare il capo dello Stato”. Mattarella ringrazia».
Adesso a Belloni la premier chiede, come è prassi istituzionale, schede dettagliate su tutto e tutti, specie prima degli incontri con gli interlocutori internazionali. Ma non solo loro. Si è messa anche in testa di ridisegnare l’intelligence.
«Appena insediata Meloni si è trovata costretta a compiere due forzature. La prima per cambiare la legge che vieta al sottosegretario alla Presidenza di avere anche la delega ai Servizi segreti, come era stato per Gianni Letta, così da poter nominare nel duplice ruolo Alfredo Mantovano. La seconda per aggirare la norma che impedisce ai magistrati, ai giornalisti e ai ministri del culto di lavorare nei Servizi. E adesso il paradosso vuole che sia un magistrato, anche se impeccabile, a coordinarli».
Mantovano sta lavorando quindi per modificare la legge 124 del 2007 che regola i compiti delle barbe finte. Una riforma a cui aveva cominciato a pensare anche lo stesso Conte.
«L’interpretazione data dal leader pentastellato ai poteri che la legge conferisce al premier è apparsa eccessivamente autoreferenziale, se non del tutto accentratrice».
Nel progetto di riordino, Mantovano gestisce i rapporti con tutti i direttori delle agenzie, con i comandanti generali delle forze armate e di polizia.
«Per sentire il loro parere su un’ipotesi di riforma, poche settimane dopo il suo insediamento, un sabato, Mantovano ha organizzato, prima volta nella storia, una sorta di “festival delle spie” con un panel condotto da Mario Sechi, ancora all’Agi, in versione Amadeus. Un appuntamento che si è poi ripetuto all’auditorium di piazza Dante, sede dei Servizi, con tutte le autorità che in passato se n’erano istituzionalmente occupate. Da Gianni Letta a Marco Minniti a Gianni De Gennaro, che si sono confrontati con i grandi manager pubblici, da Claudio Descalzi a Francesco Starace a Matteo Del Fante, e a ministri e magistrati... Sulla riforma dei Servizi il sottosegretario Mantovano ascolta molto Violante. Anche Meloni ha un rapporto consolidato con lui da quando divenne vicepresidente della Camera. Una situazione che fa inorridire i duri e puri di Fdi».
L’ex magistrato svolge un importante ruolo di ambasciatore, ma non è il solo membro del Pd che abbia un canale aperto con Palazzo Chigi.
«Un altro che Meloni stima da sempre è Massimo D’Alema. Pensa che mesi fa, prima che diventasse premier, l’ha chiamata invitandola a scrivere un articolo su Italianieuropei. Il titolo era: Il trumpismo non è stato un incidente della storia».
Mantovano ci sarà rimasto male, visto che proprio D’Alema l’aveva battuto nel collegio di Gallipoli. Un duello all’ultimo voto.
«Ironia della sorte, a votare per D’Alema anziché per Mantovano sono stati gli uomini di Raffaele Fitto, che oggi con lui è tra i ministri più accreditati».
Colui che Berlusconi aveva soprannominato “il cucciolo” quando era ministro per gli Affari regionali nel suo ultimo governo.
«Oggi è diventato una tigre. Un vero mastino con delega al Pnrr. Per Meloni e un punto di riferimento imprescindibile, non solo nel governo, ma in Europa».
È il suo jolly a Bruxelles anche con la Commissione, ma soprattutto con il Ppe e con il gruppo dei Conservatori.
«E sarà lui a costruire l’unione tra Ppe e Conservatori e riformisti»...
Ma questa corrispondenza di amorosi sensi come può giovare alla perigliosa navigazione di Giorgia tra alleati e fratelli coltelli d’Italia?
«Andreotti non aveva dubbi: le assidue frequentazioni con i Servizi alla fine portano male. Anche perché i generali dell’intelligence, diceva, sanno fare una sola guerra: quella tra di loro. Già si preparano a combattere i vicedirettori dell’Aise Zontilli e Boeri per sostituire il direttore Caravelli nel 2026». —