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 2023  maggio 28 Domenica calendario

Intervista ad Antono Patuanelli


Passata la tempesta, Ravenna si ritrova salvata dalle acque.Devastate, sì, le campagne. Ingentissimi i danni all’agricoltura. Allagati interi quartieri di periferia, come Fornace Zarattini. Ma intatto il centro. Salve le basiliche di Sant’Apollinare in Classe, Sant’Apollinare Nuovo e San Vitale; salvi i mausolei di Galla Placidia e di Teodorico; salva la tomba di Dante. Merito, ha detto il sindaco Michele De Pascale, di un cardinale piacentino, Giulio Alberoni, che ordinò, nel Settecento, opere idrauliche di messa in sicurezza. Tanto che l’altro giorno La Libertà, quotidiano piacentino, s’è fatta un vanto dei figli illustri della sua terra, titolando in prima pagina “Ravenna è stata salvata dal cardinale Alberoni” e sopra, più in piccolo perché un senso delle proporzioni comunque ci dev’essere, “Simone Inzaghi re di Coppe”.
Antonio Patuelli, presidente dell’Abi (Associazione bancaria italiana), nato a Bologna ma di famiglia romagnolissima, abitante a Ravenna da sempre: ci racconta la millenaria lotta con le acque?
«C’è una premessa da fare, c’è una cosa da spiegare ai tanti che forse ancora non sanno: noi siamo i Paesi Bassi d’Italia. Siamo una Camargue.
Siamo talvolta sotto il livello del mare. Viviamo alla foce del Po, in terreni di bonifica, ma di una bonifica recente. Tutto questo ha condizionato la nostra storia».
Da dove partiamo?
«Dal 402 dopo Cristo. A seguito delle invasioni barbariche, l’allora imperatore romano d’Occidente Onorio spostò la capitale a Ravenna. E perché? Proprio perché era circondata dal mare e dalle paludi.
Era la più difendibile».
Funzionò?
«Funzionò. Gli assedianti si trovavano gli accessi limitati dai bassi fondali e dall’andamento delle maree. Quando la marea era alta, le loro navi galleggiavano; quando era bassa, si arenavano e si inclinavano su un fianco. Così i ravennati, con le loro piccole barche a fondo piatto, si trasformavano da assediati inassedianti».
Fino a dove arrivava il dominio dell’acqua?
«In gran parte della Romagna.
Bagnacavallo, il paese di Leo Longanesi, si chiama così perché le acque arrivavano fin lì, a bagnare uomini e animali. Le paludi ricoprivano pezzi di Ferrarese e perfino di Bolognese. La Valli di Comacchio sono tuttora molto ampie».
Un tempo Ravenna era sul mare.
«Sì. Nel XXI canto del Paradiso parla di “Nostra Donna in sul Lito di Adriano”, una chiesa dedicata alla Madonna: era sul mare, ai suoi tempi. Oggi Ravenna è a undici chilometri dal mare».
Com’erano le condizioni di vita?
«Molto precarie. La paludi erano tra l’altro un ricettacolo di zanzare.
Dante morì a Ravenna di malaria nel 1321: si era ammalato al ritorno via terra da Venezia. Un secolo e mezzo dopo, sempre a Ravenna e sempre di malaria, morì il cardinal Bessarione: anche lui tornava da Venezia, dove aveva cercato di organizzare, per conto del Papa, una crociata per liberare Costantinopoli».
Quando sono cominciate le opere di bonifica?
«Negli ultimi tre-quattro secoli, e sono durate fino alla metà del Novecento. Il fiume Lamone, che ora ha devastato Faenza, fino alla metà del secolo scorso non aveva sbocco sul mare: finiva in paludi a nord di Ravenna. Negli anni Cinquanta gli è stato creato uno sbocco artificiale nelmare, fra Marina Romea e Casal Borsetti».
Quindi a volte l’uomo ha corretto in positivo la natura?
«Certo. Altre volte invece ha fatto dei danni. Ad esempio, oggi la via Emilia è una lunga sequela di località praticamente unite fra loro. Un’unica grande città che non ha ancora avuto tante opere di messa in sicurezza. La Romagna avrebbe bisogno di un magistrato delle acque, come per secoli Venezia, per avere un controllo costante su tutto».
Ma eravamo rimasti all’Impero Romano d’Occidente.
«Quando cadde, nel 476 d.C., fu occupata dagli Eruli, con il loro re Odoacre. Allora Teodorico, re degli Ostrogoti e fedelissimo dell’imperatore, cercò di occupare l’Italia. Assediò a lungo Ravenna, ma non riuscì mai ad espugnarla. Le sue truppe arrivarono a diversi chilometri dalla città e dovettero fermarsi su due isolette: una è vicina all’attuale Mirabilandia, l’altra si chiama Godo, allora Insula Gotorum.
Erano isole in mezzo a paludi. Per vincere, Teodorico dovette ricorrere all’inganno».
All’inganno?
«Promise la pace ai nemici, entrò in Ravenna e, durante il banchetto che avrebbe dovuto sancire l’accordo, fece ammazzare Odoacre. Ravenna difesa dalle acque poteva essere espugnata solo così».
È vero che dovete ringraziare il cardinale Alberoni?
«Certamente anche lui, ma non solo lui. Nel maggio del 1635 piovve per sei giorni consecutivi e Ravenna fu inondata dai fiumi Ronco e Montone, che vengono da Forlì: come vede, succede sempre in maggio.
Comunque: seguirono altre inondazioni nel 1651, 1693, 1700 e 1715. Si decise allora di deviare il Ronco e il Montone creando loro una foce artificiale fra il Lido di Adriano e il Lido di Dante. Questa è l’opera che fece lo Stato Pontificio. E quindi anche Alberoni, che venne qui a fare dei sopralluoghi».
I gioielli di Ravenna, le basiliche, i mausolei, furono danneggiati nelle precedenti alluvioni?
«Certo. In particolare nel 1635. Tenga conto che San Vitale è sotto il livello della piattaforma stradale: si scende da una rampa di scale. Nel corso dei secoli sono stati alzati i pavimenti di basiliche, perfino segando le colonne. Anche il pavimento di Galla Placidia è stato rialzato. E nella basilica di San Francesco, dove sono stati celebrati i funerali di Dante, la cripta è ancora oggi costantemente allagata: i turisti mettono una moneta per illuminarla e vedere i pesci rossi».
Come hanno cambiato i romagnoli, queste alluvioni?
«Le alluvioni, nell’Ottocento, furono frequenti anche a Roma. Dopo quella del 1870, Vittorio Emanuele II sfidò la scomunica papale e andò a offrire la sua vicinanza ai romani. Garibaldi, che era deputato, fece un vibrante discorso alla Camera chiedendo il risanamento del Tevere. E sa chi se ne dovette occupare?».
Domanda facile: un romagnolo.
«Esatto. Alfredo Baccarini, ingegnere, ministro in tre governi Cairoli e in un governo Depretis. Fu lui a far costruire i muraglioni. Nel 1884 la bonifica dell’Agro Romano fu fatta dai braccianti romagnoli: a Ostia hanno dedicato loro una piazza».
Li avete visti anche in questi giorni, i braccianti romagnoli...
«Sì, gli scariolanti. Furono chiamati così perché con le carriole portavano via la terra per costruire gli argini.
Ancora oggi spalano, mettono in carriola... Volontà, entusiasmo. Mi sono commosso quando li ho sentiti cantare Romagna mia.Durante il lavoro nei campi e durante i funerali. È l’amore per la nostra terra».