Domenicale, 28 maggio 2023
Storia della moka
Mutare radicalmente il modo di bere il caffè e rappresentare una delle cosiddette “icone” del Made in Italy sono, fuor di dubbio, gli effetti della macchinetta ideata nel 1933 da Alfonso Bialetti, titolare di un’azienda di semilavorati in alluminio. I due percorsi, le loro connessioni e i cortocircuiti che vi si leggono sono però anche un buon terreno su cui misurare la costruzione, l’invenzione e l’eccezionale amplificazione del Made in Italy stesso. Nata nel Ventennio, per “modernizzare”, ovvero rendere più spiccio e meccanico, il rituale del caffè casalingo e soppiantare la caffettiera napoletana, la Moka Express è caratterizzata dalla forma ottagonale che guarda ai modelli Déco, e dunque alla Francia patria del prodotto di lusso. Invade poi letteralmente le case degli italiani nel Dopoguerra al grido di «sembra facile fare un buon caffè…».
Le campagne pubblicitarie, i jingle nei Caroselli e il sistema industrializzato promossi dal figlio di Alfonso, Renato, che la brevetta nel 1946, portano subito a smerciare un milione di pezzi all’anno, anche fuori dall’Italia. L’idea di utilizzare la pressione dell’acqua in ebollizione come nelle macchine del bar velocizza l’operazione e porta il bar a casa, rendendo intercambiabili diversi momenti della giornata degli italiani: quello della bevanda sorseggiata con calma in famiglia o con gli amici, le chiacchiere con i conoscenti o i colleghi nei locali pubblici o il rapido sorso rivitalizzante prima del lavoro o in una pausa. Il tutto comunque inseguendo velocità e efficienza.
Contemporaneamente, e in controtendenza, proprio a partire dall’immediato Dopoguerra, la cifra identitaria dell’italianità, anche attraverso i suoi oggetti, attrezzature, abiti, via via per arrivare a cibi e vini, è quella della Dolce vita, di un saper vivere lento, che è in qualche modo la traduzione dell’otium pliniano, da cui discenderebbe, nella percezione internazionale cavalcata prontamente in patria, l’attitudine alla creatività, ad arrangiarsi con poco per ottenere risultati dotati di genialità cordiale, inventiva scanzonata venata di “sprezzatura”, in sintesi il design italiano. «Guai alla macchina che confessa la fatica del proprio lavoro», sentenzia Gio Ponti fin da La casa all’italiana (1933) e lo slogan viene poi usato proprio per accompagnare una macchina per il caffè espresso, questa volta da bar: la sua Cornuta per Cimbali (1947).
L’andamento a elastico e la contaminazione tra ossimori – veloce e lento, domestico e pubblico, italiano e internazionale, tradizionale e moderno, semplice ed elegante – e slogan come «l’orgoglio della modestia», divengono, a ben vedere, la spezia che condisce la diffusione e la fortuna globale del “fatto in Italia”: fatto bene, con materiali accuratamente selezionati, esito di un progetto leggibile e i piedi ben piantati nel terreno della tradizione artistica nazionale. Tutte definizioni che il sentire diffuso assegna in modo più o meno marcato a una lettura identitaria, quasi antropologica, degli italiani, che siano prodotti o persone. Italiani che, tornando al caffè, lo utilizzano come attributo, appunto, non tralasciando mai di portare con sé la moka in caso di trasferte o di lamentarsi della cattiva qualità del caffè all’estero.
Se è palese la coincidenza tra la tazzulella e gli italiani, altrettanto evidente è il fatto che moltissimi dei prodotti autoctoni – materiali o culturali – siano diventati patrimonio globale ormai a prescindere dalla loro origine. Da Starbucks il caffè e le sue varianti conservano nomi italiani, con bizzarri neologismi – frappuccino – che abbiamo accolto di ritorno, ma sono un prodotto altro, più adatto ai modi di consumo e di socialità nordamericani. Miscele e apparecchi italiani per il caffè a casa sono reclamizzati, mostrando come sfondo Parigi o una villa in California, da star internazionali salvo definire «peffetto» la bevanda, ritornando in qualche modo alla lingua di Dante.
Abbondano fin dagli albori del Made in Italy caffè e strumenti per lavorarlo e servirlo in diverse declinazioni, incluse varianti per il mercato internazionale e per eventi culturali: nel 1946 l’azienda milanese Robbiati brevetta e mette in vendita negli Stati Uniti una macchinetta per il caffè espresso dal sinistro nome di Atomic, di enorme successo. Nel 1980 Alessandro Mendini propone una caffettiera in versione gigantesca e multicolor nella mostra Design banale alla prima Biennale di Architettura di Venezia. Ancora, nel 1990 Germano Celant e Gaetano Pesce allestiscono le sale della mostra Creativitalia – The Joy of Italian Design a Tokyo richiamando l’oro nero nazionale: «In cucina un omaggio al rito del caffè, una torre di Babele fatta di caffettiere e un paesaggio tutto commestibile». Per non parlare delle variazioni sul tema della caffettiera affidate dai grandi marchi ad architetti, designer e stilisti (Sapper, Rossi, Mendini, Dolce&Gabbana...).
Come dire che il caffè è sulla e nella bocca di tutti e si piega a molte narrazioni, indubitabilmente italiane ma capaci di adattarsi alle aspettative dei consumatori – di prodotto e di cultura – internazionali, diluendo, meticciando e mantenendo le due sfaccettature: locale e globale. Un Italian sounding che, in verità, conviene ai più. E sì, la caffettiera è un faro del Made in Italy, quello che ci piace perché è diventato di tutti, un po’ come la Gioconda.