Domenicale, 28 maggio 2023
I «Ricordi» di Francesco Guicciardini
È una buona stagione negli studi su Francesco Guicciardini. Da poco tempo è uscita una bellissima raccolta delle sue lettere curata da Paola Moreno, purtroppo ora scomparsa, che ha anche pubblicato uno studio molto interessante su Come lavorava Guicciardini.
È uscita ora una nuova e bella edizione dei Ricordi a cura di Matteo Palumbo che si affianca all’edizione anch’essa molto interessante che ne aveva dato Caro Varotti. Sono tutti studi che contribuiscono a distruggere le vecchie immagini di Guicciardini che ci erano state consegnate da una tradizione che risaliva a Francesco De Sanctis. Oggi appare chiaro che i Ricordi sono uno dei più importanti testi di riflessione morale sia in Italia che nell’Europa del Cinquecento. Essi fermentano nella esperienza intellettuale e politica di Guicciardini come conferma il fatto che, in forme diverse – e come momenti di discorsi più vasti – appaiono in gran parte delle sue opere storiche, a cominciare dalla Storia d’Italia, oppure in testi drammatici – pur rientrando in un genere letterario preciso – come l’Accusatoria o la Consolatoria. I Ricordi sono una sorta di “giornale di bordo”, ed è sintomatiche la loro redazione accompagni Guicciardini lungo tutta la vita.
C’è però un punto preliminare da chiarire che risalta dalla sua esperienza umana e intellettuale. Guicciardini conosce la durezza della vita e le leggi della politica, non se ne lascia impressionare, è pronto, se lo ritiene giusto, ad emanare sentenze di morte; non è un moralista: sa stare nella lotta senza remore e senza pentimenti, getta però su tutta la realtà uno sguardo totalmente spregiudicato al quale è intrinseco – ed è questo il punto da sottolineare – la dimensione dell’ethos, della moralità. È si può dire, una struttura costitutiva della sua personalità. In genere dissimulata nel corpo del ragionamento, è una dimensione che scatta a volte in maniera incontrollabile, specie quando parla della chiesa romana e dei pontefici che conobbe o con i quali gli toccò di vivere: Alessandro VI e, per quanto in forme diverse, Giulio II per il quale, considerandolo come politico indomito, ebbe una sorta di rispetto e di sia pur turbata ammirazione. Giudizio tanto più duro e violento, quello sui pontefici, perché dovrebbero essere i testimoni di una vita retta, onesta, santa, mentre sono invece la conferma della presenza del diavolo nel mondo, più che di quella di Dio – di cui, a differenza del principe del male – nel mondo non si vede alcuna traccia. È il grande tema, tipico di quella cultura e in modo particolare di quella generazione, del “rovesciamento” degli ordini del mondo.
Come tutte le grandi personalità del Rinascimento l’esperienza umana e intellettuale di Guicciardini si svolge in una pluralità di cerchi: è un grandissimo storico, forse il più grande che abbia avuto l’Italia, un notevole teorico dello stato, un politico eminente, un eccezionale, sottilissimo analista della natura umana, ma resta sempre, conviene ribadirlo, un uomo della moralità, che è cosa diversa, anzi l’opposto, del moralismo; così come un uomo della moralità, dell’ethos è Machiavelli. È un aspetto della sua personalità che non afferra fino in fondo Montaigne che pure – come giustamente sottolinea Palumbo – ha «un metodo che non è troppo distante dalla via seguita dall’autore dei Ricordi». C’è però un tema che accomuna Guicciardini, Machiavelli, Montaigne ed anche Shakespeare, ed è la persuasione della fine del mondo nel quale sono vissuti e che ora si avvia al tramonto definitivo, anche se Machiavelli pensa che occorre battersi perché questa fine che non può comunque essere evitata sia almeno rallentata, ricorrendo – come è necessario fare in crisi organiche così profonde – a mezzi eccezionali, appunto, e «stravaganti», cioè non contemplati dal canone ordinario della politica ed anche dell’etica. Guicciardini, Montaigne e Machiavelli sono d’accordo nel ritenere che, come dice Cicerone, «vitam regit fortuna, non sapientia».
Giustamente Palumbo nella sua introduzione sottolinea come quello del Guicciardini sia un pensiero della «crisi». Se non si situa Guicciardini nella crisi italiana fra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, è difficile comprendere la drammaticità di una esperienza che si svolge in «un pazzo labirinto». La crisi, il disordine del mondo, è questo il carattere del tempo che tocca in sorte a Guicciardini, una crisi, un disordine che corrompe tutti gli aspetti della vita e della realtà da quelli elementari, quotidiani, a quelli universali, e di questo egli è totalmente consapevole. Si sono rotti gli antichi legami, a cominciare da quelli familiari; ed è un fatto che lo colpisce in modo particolare. Quel mondo ordinato e rassicurante nel quale era cresciuto è finito e Guicciardini lo sa, come appare chiaro proprio in un “ricordo”. I vincoli tradizionali si sono allentati, non hanno più la forza di un tempo, decadono: «negli uomini – scrive nella Storia d’Italia – può più la cupidigia del regnare che la riverenza paterna».
Ma la crisi non è solo del microcosmo familiare, è anche del macrocosmo dell’universo, è cambiata la carta geografica che era stata fino ad allora l’asse intorno al quale erano girate le vicende umane. È tramontato l’orizzonte eurocentrico e antropocentrico, e con esso è finito un intero mondo di certezze e di valori, è in crisi una intera civiltà – come sapeva bene anche Montaigne. I confini del mondo sono saltati; non esiste dunque niente di fermo, di stabile. Le nuove scoperte geografiche aprono infatti problema assai gravi, anche dal punto di vista del racconto biblico mettendone in questione la consistenza e la credibilità. Una crisi generale, dunque, che esplode in forme violente anche in un’altra sfera che coinvolge direttamente Guicciardini: sono le trasformazioni che avvengono nel mondo delle armi e quindi nel modo di condurre le guerre. Con le nuove armi cambia infatti anche l’esperienza della morte, a cominciare da un dato quantitativo: se prima in battaglia morivano poche decine di uomini ora con le nuove ne muoiono migliaia.
Guicciardini, dunque, è come Machiavelli un grande pensatore della crisi italiana e il merito del lavoro di Palumbo è di mettere a fuoco questa sua esperienza sfruttando nel modo migliore la grande meditazione dei Ricordi.