Domenicale, 28 maggio 2023
Calvino e Scialoja, favole a due a due
«Non può sapere, caro Calvino, in quale considerazione io tenga le sue opere, quanto amore ne abbia sempre ricavato e ne ricavi, con un più di delizia monumentale da attribuire alle sue stupende Fiabe Italiane; ma qui entra in gioco la mia passione segreta o marginale o non tanto per la letteratura infantile». A indirizzare questa lettera allo scrittore è il poeta-pittore Toti Scialoja, nell’ottobre 1973. Romano con occhi e cuore rivolti oltreoceano, si era fatto conoscere a livello internazionale attraverso la serie delle Impronte, matrici impresse sulla tela nell’intento di spazializzare la superficie. Ma in quel «non tanto» è distillata l’altra vocazione, quella di poeta del senso perso, che Calvino – incantato dalle poesie illustrate scoperte attraverso la figlia Giovanna – avrebbe fatto pubblicare da Einaudi, definendolo «il primo vero esempio italiano di un divertimento poetico congeniale alla straordinaria tradizione inglese del nonsense e del limerick».
Un primo fugace contatto tra i due si può far risalire ai primi anni 50, quando Calvino era stato chiamato collaborare a un progetto di pubblicazione poi non realizzata, «Rivista Bianca», che Scialoja avrebbe dovuto dirigere insieme a Elsa Morante e Mario Lattes. Ma al culmine di un rapporto editoriale (divenuto col passar degli anni un’amicizia) si situa la collaborazione che, tra il maggio 1977 e l’anno successivo, li vede elaborare una serie di fiabe teatrali per bambini destinata alla seconda rete Rai, purtroppo poi mai andata in onda. Il titolo provvisorio, Fiabe Bianche, richiama forse quel primo accenno di lavoro comune; le carte d’archivio lo descrivono come un «progetto di fiabe a due mani di Italo Calvino e Toti Scialoja, basato su peripezie di oggetti come tramiti per viaggi nella fantasia. Spettacolo basato sulla magia della parola e affidato a tre giovani attori-mimi in grado di far vivere gli oggetti in modo sottilmente ritmico».
Mondadori le propone in forma autonoma per le cure attente di Mario Barenghi, raccogliendo i testi di Calvino – secondo la lezione delle sceneggiature inviate alla Rai, diversa da quella dei Meridiani – e una selezione degli splendidi inediti bozzetti scenografici di Scialoja. La scelta del titolo definitivo, Teatro dei ventagli, è stata chiarita in un’intervista rilasciata da Calvino a Nico Orengo nel 1978: «Toti Scialoja ha una grande passione per le azioni mimiche, che realizza facendo compiere agli attori dei gesti mentre tengono in mano degli oggetti qualsiasi, che di volta in volta rappresentano cose, situazioni, stati d’animo diversi. È una tecnica che ricorda l’uso del ventaglio nell’antico teatro giapponese». Scialoja non era nuovo a esperimenti di questo tipo (ne ha scritto Chiara Mari in un saggio incluso nel volume a più voci Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte, Carocci 2019), sviluppati in collaborazione con l’autrice Donatella Ziliotto in occasione di altri programmi Rai.
Fiabe dell’albero (1974) e Fantaghirò (1975) presentavano scenografie astratte, di pochi mezzi, perfette per la televisione in bianco e nero. Ma il Teatro dei ventagli si spinge oltre; non una commissione, piuttosto un irresistibile ping pong tra testo e immagine. Il gioco era semplice ma elettrizzante: Calvino inviava all’amico una lista di «oggetti a coppie» a partire dalla quale far nascere le fiabe; Scialoja li selezionava, e dal successivo botta e risposta germogliavano sia i testi che le scene (in cui le cromìe avrebbero dovuto avere «un ruolo fondamentale», in vista delle prime trasmissioni a colori). Le liste riportate in apertura delineano le varie funzioni degli oggetti da indossare, manipolare o, sulla scorta delle Fiabe incatenate di Beatrice Solinas Donghi, legare tra loro. Avrebbe fatto piacere vedere il nome di Scialoja in copertina accanto a quello di Calvino, vista la dimensione plurale dell’autorialità: i suggerimenti del poeta-pittore orientano la struttura narrativa, nel segno della vocazione visiva che anima sin dagli esordi l’autore delle Città invisibili.
Scialoja arriva a scartare due testi (Le tre isole lontane e Il drago e le farfalle, ora in volume), opera tagli, propone soluzioni alternative. Ne nasce un universo di cavalieri e fate, califfi, specchi e piume di struzzo che apre a un inarrestabile gioco di rimandi: «Riconoscerai altri volti… Altri oggetti… Altri luoghi…». Perché la fiaba, per dirla con Calvino, è lo scheletro invariante che schiude le costanti di ogni atto narrativo. A spingerli in questa direzione era, suggerisce a ragione Barenghi, «la sensibilità di entrambi per il gioco, la finzione e la dimensione visiva». L’interesse per il pubblico infantile è inscindibile dalla comune ossessione per le contraintes. Calvino frequentava le geometrie combinatorie dell’Oulipo da più di un decennio; Scialoja stava portando avanti un’operazione non distante coi nonsense, nati dal libero accostamento semantico eppure fedeli alla metrica e alle convenzioni di genere.
Il duo brilla nell’innescare la magia fabulatoria attraverso un teatro delle ombre che, grazie a materiale di riuso reso irriconoscibile e memorabile, arriva in profondità restando apparentemente in superficie. Impresa riuscita soprattutto nella Foresta-Radice-Labirinto, esempio di mediazione tra astrazione e materialità che dà vita a una «scrittura che usa un materiale logoro, già risaputo, e riscattandolo dal luogo comune lo fa diventare poesia». Sono parole che Scialoja ha dedicato a Stevenson, amato da entrambi, ma colgono il carattere del Teatro dei ventagli, amuleto da opporre al mal de vivre per bambini da zero a cent’anni.