Domenicale, 28 maggio 2023
Storia dell’aria
L’aria è il respiro che dà la vita. Così si racconta nella Genesi, quando Dio per creare Adamo: «soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». Dante, vedendo i maestri vetrai all’opera nei giorni che passò a Venezia, riconobbe forse nell’arte di questi umili creatori un modesto rispecchiamento dell’atto divino, e anche della sua poesia.
I maestri vetrai, con il loro soffio, danno vita a forme solide ma fragili, fatte d’aria. Secondo alcuni studiosi talmudici la potenza del Creatore si può dedurre dall’arte vetraria. Se è possibile riparare un oggetto di vetro infranto, sebbene sia stato creato dall’alito di un essere umano, «tanto più può esserlo un uomo, creato dall’alito del Signore». L’aria conferisce visibilità alla materia attraverso la sua essenziale trasparenza, e ne porta al contempo avanti la memoria. Beatrice, per istruire Dante sulla fisica dell’Aldilà, usa tre specchi e una candela (Paradiso, II, 97-105), illustrando in modo empirico la nozione di distanza visibile. Per Dante, i principi della fede sono dimostrati ogni giorno nel nostro mondo sensibile.
Il falsario Griffolino, condannato da Minosse all’ultima bolgia del Cerchio dei Fraudolenti, confessa di aver praticato l’alchimia quando era tra i vivi: pare tuttavia che Dante approvasse questa pratica, seguendo gli insegnamenti dei Francescani e opponendosi ai Domenicani, non per falsificare la verità ma per scoprirla. Senza dubbio, Dante aveva una certa familiarità con la tradizionale suddivisione alchemica dei quattro elementi – terra, acqua, fuoco e aria – da cui tutto ebbe origine secondo Jabir Ibn Hayyan, alchimista arabo dell’VIII secolo. Questa suddivisione forniva al mondo un sistema arcano di lettere e di parole, di segni e di simboli, attraverso i quali possiamo rappresentare tutta l’esperienza terrena. Gli alchimisti chiamavano questo sistema «la nostra argilla, con la quale facciamo rispecchiare la terra in sé stessa».
L’alchimista sufi del XII secolo Ahmad al-Buni istruiva i suoi seguaci sull’esistenza della scrittura nell’aria che ci circonda: «Sappiate che i segreti di Dio e gli oggetti della Sua scienza, le realtà sottili e le realtà dense, le cose dall’alto e le cose dal basso appartengono a due categorie: ci sono numeri e ci sono lettere. I segreti delle lettere sono nei numeri, e le epifanie dei numeri sono nelle lettere».
Un contemporaneo di Dante, Ramon Llull, conscio di queste iscrizioni segrete nel Libro del Mondo, escogitò un’arte combinatoria – l’equivalente di un primitivo computer – per materializzare queste fiduciose delucidazioni alchemiche. Da giovane, Llull era stato al servizio del Re di Maiorca (come egli stesso ci dice) e aveva condotto una vita spensierata, componendo poesie e canzoni d’amore nello stile dei trovatori catalani. Una notte, mentre era seduto accanto al letto intento a comporre una nuova canzone, si voltò verso destra e vide Cristo sulla Croce che lo fissava, quasi fosse sospeso a mezz’aria. Quella visione provocò un profondo cambiamento in Llull, che da quel momento in avanti si prefissò di cercare l’illuminazione per sé e per gli altri, e a tal fine sviluppò le sue complesse macchine filosofiche. Costruì una serie di dischi provvisti di lettere che, ruotando in direzioni opposte, si arrestavano in un assortimento di parole che suggeriva dei concetti associativi. Queste macchine catturavano i pensieri in movimento, fatti d’aria.
Le macchine di Llull erano manufatti aerei, una sorta di nobile compendio del pensiero filosofico e religioso, uno strumento volto a ispirare la meditazione e, auspicabilmente, a far convertire i non credenti. Ma quest’arte combinatoria era soprattutto intesa come un modo per creare nuove proposizioni, tali da abolire in toto il linguaggio ordinario per rimpiazzarlo con un sistema di segni ineffabili che alludano, senza nominarli, ai componenti della realtà. La Commedia, come i libri di Llull, è una macchina verbale che traduce il respiro dell’universo nel respiro della parola.