La Stampa, 28 maggio 2023
Contro Meloni
Non vogliamo rovinare il presepe meloniano, così mirabilmente agghindato dalle tante Agenzie Stefani acquartierate nelle redazioni dei “picchiatori d’area” e nei telegiornali della Tv di Stato (e mai definizione fu più in linea con i tempi). Siamo felici di questa straordinaria resilienza italica, di fronte ai tre choc globali di questi ultimi tre lustri: crisi dei debiti sovrani, pandemia e guerra in Ucraina. Siamo fieri di questa economia reale che non solo si cura le ferite, riparte e addirittura fa meglio di quelle dei partner occidentali. Per quest’anno il Fondo monetario assegna all’Italia una crescita dell’1,1% (migliore della stima precedente ferma allo 0,7), mentre la Commissione europea prevede un più 1,2% (contro una media dell’1,1 nell’Eurozona).Se poi pensiamo che da giovedì scorso la Germania è ufficialmente in recessione, allora mancano solo i Re Magi, e anche l’Epifania Tricolore sarà infine compiuta. In realtà, come ricorda giustamente Mario Deaglio, questa bolla festosa che il governo gonfia ogni giorno d’aria e propaganda rischia presto di scoppiare. Il fronte internazionale è pieno di incognite. Secondo il Global Debt Monitor dell’Iif, proprio nel momento in cui Fed e Bce hanno stretto il nodo scorsoio dei tassi di interesse, il debito mondiale è volato alla cifra monstre di 304.900 miliardi di dollari. In America la stretta monetaria ha innescato una discesa del costo della vita, ma i debiti delle famiglie hanno superato per la prima volta nella storia quota 17 mila miliardi di dollari: se va bene ci sarà meno inflazione ma crescita anemica, se va male ci saranno recessione e default privati, che si aggiungono a quello pubblico non ancora scongiurato dalla Casa Bianca e dal Congresso.In Europa il caro-prezzi è più ostinato, e questo spingerà Christine Lagarde a elevare ancora i tassi, proiettando sull’economia dell’area euro lo spettro di una vera recessione.Il fronte interno è ancora più vischioso. Come osserva opportunamente Alessandro Penati, tanto “compiacimento per le previsioni gratificanti di crescita del nostro Paese” potrebbe portarci presto a “un brusco risveglio”. Al di là della spinta momentanea dell’edilizia drogata dal Superbonus, delle ottime performance di alcune filiere produttive come l’agroalimentare e dell’export manifatturiero, la politica economica è confusa, contraddittoria, corporativa. La Melonomics, semplicemente, per adesso non esiste. Non è una critica faziosa, perché finora non esiste nemmeno una Schleinomics. È, più banalmente, la somma delle gravi criticità evidenziate in questi ultimi giorni da tutte le principali istituzioni indipendenti.L’ultimo a smontare il vacuo storytelling della presidente del Consiglio e del suo ineffabile ministro del Tesoro è l’Fmi, che invoca “un piano credibile di riduzione del debito a medio termine”, suggerisce una revisione del sistema previdenziale con “un’età pensionabile collegata alle aspettative di vita, prestazioni maggiormente allineate ai contributi e abolizione dei regimi di prepensionamento”, consiglia un Fisco che “incoraggi l’occupazione, abolisca le spese fiscali inutili, rafforzi la riscossione delle entrate, tuteli la progressività”. La Banca d’Italia, in audizione alla Camera, è inflessibile sulla delega fiscale: mancano “le opportune coperture finanziarie”, non è chiaro “né quali incentivi saranno oggetto di razionalizzazione né quindi l’entità delle risorse che potranno essere recuperate”, ma soprattutto il sistema ad aliquota unica e a riduzione del carico fiscale risulta “poco realistica per un Paese con un ampio sistema di Welfare, specie alla luce dei vincoli di finanza pubblica”.La Commissione europea, nelle sue Raccomandazioni”, non fa sconti: contesta le “inefficienze strutturali nel settore pubblico” che “scoraggiano gli investimenti e rallentano la crescita della produttività”, dal lato delle uscite rimarca il perdurante “squilibrio macroeconomico eccessivo” e la necessità di limitare “l’aumento nominale della spesa primaria”, dal lato delle entrate critica l’imposta ad aliquota unica che “accresce i rischi legati all’equità” e anche la riduzione del numero di scaglioni che “ostacola la progressività del sistema fiscale”, fino ad arrivare alla riforma costituzionale dell’autonomia differenziata, che “senza risorse aggiuntive” non garantirà mai “i livelli standard dei servizi nelle regioni con bassa spesa storica”. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio è ancora più severo: il passaggio dagli attuali scaglioni Irpef a uno schema ad aliquota unica “determina effetti redistributivi che penalizzano i soggetti con redditi medi e favoriscono quelli con redditi più elevati”, a meno di rinunciare “a una quota elevata di gettito” o di ricorrere ad altro indebitamento netto, con ovvie “conseguenze negative sull’equilibrio dei conti pubblici”. In generale, tutti i centri di osservazione extra-governativi rilevano con preoccupazione gli evidenti “delays” del Recovery italiano, cioè i clamorosi ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. La Corte dei conti segnala che tra il 2022 e il primo trimestre del 2023, sui 24,5 miliardi complessivi di spese affidate alle Amministrazioni centrali, il “tasso di attuazione arriva solo al 13,4%”.Questa è l’immagine che hanno di noi i principali organi di controllo e di garanzia no-partisan. Per sintetizzare: in un medio termine che vedrà il carovita e il costo del denaro ancora molto alti, la fuoriuscita definitiva dai programmi di acquisto dei bond da parte della Bce e il ripristino dei vincoli del Patto di stabilità a partire dal prossimo anno, la strategia del governo italiano non dà garanzie di alcun genere. Non offre un percorso di rientro del debito né di abbattimento del rapporto deficit/Pil. Non ha uno straccio di idea efficiente sul fisco, se non una Flat tax che sfascia il bilancio e l’equità fiscale (non a caso su 225 Paesi del mondo la adottano solo in 23, dall’Armenia al Belize, dalla Bolivia all’Uzbekistan). Non prevede un riassestamento del Welfare, che a partire dall’invecchiamento della popolazione rimetta ordine alla spesa previdenziale a vantaggio di quella sanitaria (nel 2026 già destinata a scendere, secondo il Def, al 6,2 per cento del Pil, cioè ai livelli pre-Covid). Non combatte le povertà e le disuguaglianze, se non con una brutale demolizione del reddito di cittadinanza che lascerà di fatto senza sussidi almeno un milione di soggetti deboli e inoccupabili. Non aiuta i giovani, per i quali mancano un disegno su istruzione e formazione e un investimento sul capitale umano (tuttora il 19% dei neo-diplomati emigra all’estero, per non parlare dei neo-laureati). Soprattutto, non mette in campo niente di strutturale per rafforzare produttività e crescita, e per di più spreca la monumentale e irripetibile occasione del Pnrr. Non proprio la “Open to Meraviglia” di Daniela Santanché. Semmai “La finestra sul nulla” di Emil M. Cioran.Contemplando questo nulla dalle rispettive casematte del potere, Giorgetti balbetta e Fitto impapocchia. In compenso la premier fa appello al solito “tengo famiglia”, spiegando ai concittadini che “se non facciamo più figli siamo rovinati”. Blandisce i lavoratori dipendenti con il salvifico calo del cuneo fiscale, sperando di poterlo rendere definitivo a fine anno, giusto in tempo per infilare il “Bonus Meloni” nelle buste paga degli italiani, come cadeau elettorale in vista delle Europee 2024. Accarezza i lavoratori autonomi, guardandosi bene dall’aggredire l’evasione fiscale perché lei dice “no al pizzo di Stato” (come se pagare le tasse non fosse il solo e giusto modo per finanziare ospedali e garantire servizi, ma una mazzetta pretesa dal Leviatano di Hobbes). E questo è tutto. Ferma restando l’apprezzabile presa d’atto dell’esistenza di un “vincolo esterno” europeo (che ci salva e non ci distrugge, al contrario di quello che i sovran-populisti tendenza Visegrad hanno professato per anni), la domanda da porsi ora è un’altra: che idea di Italia hanno i nostri eroi? Un tempo, alla grossa, l’avevamo intuita: destra sociale e pauperismo, Stato forte e assistenzialismo, autarchia e anti-capitalismo. Ma oggi? Cos’è questa pasticciata Dottrina economica di scuola meloniana, che non è compassionevole ma neanche sviluppista, non è liberale ma neanche liberista, non è assistenziale ma neanche rigorista? Che dà due spicci ai poveretti e se ne frega del ceto medio, fa i condoni e non tassa gli extra-profitti, predica il lassez-faire per i padroncini e non ha un progetto per la grande industria (vedi Ilva e Tim)?Sull’economia urge un serio chiarimento, tra l’infornata di mezzi busti e mezze tacche Rai incaricati di redigere il nuovo “palinsesto della Nazione” e il reclutamento di pseudo-intellettuali della galassia nera assoldati per costruire la “nuova egemonia culturale”. In caso contrario, sarà autunno caldo. E allora si prepari Mario Draghi. Non per subentrare ai patrioti, perché non cadranno di sicuro. Ma per accogliere tutto il fango postumo che gli scaricheranno addosso, pur di nascondere i loro fallimenti.