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 2023  maggio 27 Sabato calendario

Intervista ad Ali Smith - su "Coda" (Sur)

Sandy è una pittrice, è gay e vive da sola. Il tredicesimo libro di Ali Smith - Coda - inizia in piena pandemia, alla fine del primo lockdown, e il padre della protagonista è stato ricoverato in ospedale per un grave attacco cardiaco. Sandy è frustrata e preoccupata perché non può neppure vederlo, a causa delle restrizioni imposte dal Covid. Mentre attende con ansia aggiornamenti dall’infermiera, riceve una telefonata da una donna, compagna di studi all’università, che conosceva poco già allora e che non le è neppure mai stata molto simpatica. Questa sconosciuta virtuale, che si chiama Martina, inizia a raccontarle una storia surreale che deve assolutamente condividere con Sandy perché ricorda che già quando erano studentesse sapeva usare bene le parole e capirne i significati.

Dice di essere stata fermata all’aeroporto da agenti della dogana di ritorno da un viaggio di lavoro all’estero per riportare in patria un manufatto museale di inestimabile valore, la complessa serratura di Boothby del XVI secolo (spoiler: l’oggetto non esiste). Gli agenti brutalmente le contestano il fatto di avere due passaporti (chiaro rimando ai cittadini del nulla e alla Brexit) e la chiudono in una stanza senza finestre. Nelle sette ore e mezzo in cui rimane prigioniera in questa terra di nessuno aeroportuale, Martina sente strane voci che dicono «Coprifuoco o Chiurlo. Scegli tu».

Quindi dice di aver chiamato Sandy, l’unica secondo lei a poter capire il significato di questo messaggio sconcertante, perché a scuola l’aveva aiutata ad analizzare una poesia di E.E. Cummings che non riusciva a comprendere. Nel giro di poco Sandy arriva a casa di Martina e poi anche le due figlie gemelle si presentano alla porta, due ragazze strafottenti (e senza mascherina) accusando Sandy di plagiare la madre.

Quello che accade dopo non è fondamentale, perché non c’è una vera trama nei romanzi di Ali Smith, ma ancora una volta Ali Smith costruisce una trama che è una raccolta di momenti e suggestioni e riflessioni che ci portano direttamente a una domanda necessaria e più che attuale: come siamo cambiati dopo la pandemia? È possibile tornare alle relazioni sociali di sempre? E se sì, con quali modalità ci rapportiamo agli altri?

Smith, scozzese, classe 1962, ha vinto alcuni dei maggiori premi letterari britannici ed è stata ben quattro volte finalista al Booker Prize, nonché finalista al Premio Strega Europeo nel 2017. Ha scritto cinque raccolte di racconti e undici romanzi. Piace o non piace, come i suoi libri radicali e a suo modo sperimentali. Per chi la ama è un punto di riferimento e una certezza di originalità e di precisione, è una voce che a ogni libro diventa più profonda e puntuale nella dissezione della contemporaneità. Di recente ha sperimentato una narrazione quasi in presa diretta con la realtà. Lo ha fatto con il quartetto delle stagioni, un libro all’anno per ogni stagione. Nel 2016 è uscito Autunno (era l’anno di Brexit), seguito da Inverno e Primavera (2017-2018 nel quale si affrontano le conseguenze della nefasta decisione e le divisioni e le liti delle fazioni pro e contro Europa) e Estate (uscito a luglio 2020, quando la pandemia era agli inizi). Esce ora Coda, che è una sorta di appendice alla quadrilogia, nel quale il tema centrale sono le conseguenze della pandemia e dei lockdown sulle nostre vite.

Andiamo subito al punto. Come pensa che la pandemia abbia cambiato il nostro modo di interagire?
Penso che non abbiamo ancora recepito in massa i profondi cambiamenti che il tempo e la perdita ci hanno portato. Penso che stiamo sentendo la scossa di assestamento e non riconosciamo ancora l’impatto mentale e fisico di un periodo che ci ha visitato tutti con la consapevolezza della nostra contingenza. Un tipo di chiarezza e di visione che in passato era concessa solo a coloro che si erano avvicinati alla morte, vicino fino al midollo. Ma ora ci siamo tutti, in tutto il mondo, simultaneamente, avvicinati. Non c’è da stupirsi che ci sia un profondo bisogno di negarlo o di far finta che non sia successo, perché siamo tutti umani e l’umanità non può sopportare molta realtà, come dicono i poeti».

Quindi?
Dobbiamo reagire. Reprimere la realtà ci ammacca dentro. Pone anche domande sullo Stato e sulla comunità, sui danni ambientali e sul controllo delle masse, domande profonde sulla salute o meno di tutte queste cose. Non ci farà altro che bene cercare di affrontarle. Se non lo facciamo, ci perdiamo ciò che quanto è successo può diventare per noi».

Nel quartetto delle stagioni ha affrontato temi come la Brexit, Trump, le fake news, l’odio su Internet, i cambiamenti climatici. Perché è sempre così interessata a scrivere di ciò che sta accadendo in questo momento?
«Il quartetto è incentrato su ciò che accade quando si inseriscono queste cose nella narrazione, piuttosto che sullo schermo di un telefono o sulla prima pagina di un giornale. La narrativa rivela sempre le cose come sono, e ci dà sempre un po’ di respiro, un po’ di contesto, un po’ di distanza, in modo da poter vedere come agiscono queste cose, cosa significano per noi, nelle forme che stanno prendendo le nostre vite. E scrivere qualsiasi cosa non può non riguardare il tempo in cui viene scritta, perché il linguaggio è poroso e vivo come la nostra pelle, e altrettanto assorbente. Così la storia dà alla superficie delle notizie e delle informazioni una dimensione vitale e necessaria, il contesto umano, il contesto morale, il contesto della fonte e delle probabili conseguenze. E il contesto temporale, e tutto questo ci dà abbastanza spazio rispetto all’impatto di quelle notizie o informazioni da poterle vedere con analisi e comprensione, oltre che con sentimento ed emozione reattiva».

Quanto conta per lei la storia (il grande progetto dietro la finzione)?
«La questione di chi può dettare la storia mi interessa - dovrebbe essere di vitale importanza per tutti noi - e le cose che si perdono così facilmente nel racconto, per non parlare della storia vera e propria, mi interessano moltissimo. La tua storia significa: ti distruggerò, oppure sei già morto. Inoltre: cosa produce il futuro? Il presente. Cosa produce il presente? Il passato. Parafrasando George Orwell, chi controlla il passato controlla il presente, e chi controlla il presente controlla tutto ciò che sta per accadere».

Nel libro c’è un gioco di parole. In inglese è «Curfew or Curlew», basta cambiare una consonante per dare due significati completamente diversi. In italiano è «Coprifuoco o chiurlo», semplifico: la chiusura o la libertà del volo di un uccello. Come le sono venute in mente queste due parole?
«Non lo so, ma sono felice che sia così. Associazione casuale di parole? Un sottotesto inconscio? Cosa succede quando due cose che sembrano totalmente opposte si uniscono invece di rimanere divise, per dare vita a una nuova comprensione?»

Come attiva questo tipo di immaginazione?
«Non lo faccio io, è lei che attiva me. Siamo tutti in dialogo con la nostra immaginazione, grazie a Dio. Il luogo in cui l’immaginazione e la realtà si incontrano è il luogo in cui tutto è possibile, il bene e il male».

Per risolvere il dilemma del coprifuoco e del chiurlo una delle protagoniste del libro dice all’altra: “Guarda le parole. Loro ti diranno cosa significano. Perché è quello che fanno le parole”. A volte, però, sembra che le parole siano usate a casaccio. E perdano il loro significato. Pensi ai social media…
«Le parole non sono mai prive di significato. Anche il linguaggio del silenzio ha un significato, le mezze parole o l’approssimazione del rumore. I social media sono così potenti proprio perché racchiudono una tale potenza di significato nella loro immediatezza e brevità, e perché spesso lo spazio per l’affermazione e la risposta è così pressante che le cose finiscono per essere più riduttive del pensiero e della discussione che necessitano di un vero contatto comunicativo. Il che non rende i social media privi di significato o uno strumento spuntato, ma un mezzo di comunicazione molto efficace. E non c’è media, non c’è intelligenza, anche artificiale, che non sia guidata da qualche parte all’origine dagli esseri umani e dall’esercizio del potere. Dobbiamo decidere cosa fare con questi strumenti così efficaci. Faremo qualcosa che renda il mondo più grande, più aperto, o qualcosa che agisca in modo riduttivo? Chi ne trae beneficio?».

La pandemia ha messo in luce una grande piaga del nostro tempo: la sofferenza che deriva dalle relazioni con gli altri. Pensa che ci sia ancora spazio per la comunità?
Penso che abbia evidenziato contemporaneamente il nostro bisogno di comunità, la nostra risposta comune, e la rivelazione dei pericoli e delle follie dell’isolamento e dell’isolazionismo. La pandemia, come il cambiamento climatico, ha fatto cadere sia la nozione che l’attualità fisica dei confini. Ho amato e amo l’inventiva di tutti noi nel trovare modi per unirci».

Si è mai sentita intrappolata in una relazione?
Sì, certo. Non è successo a tutti? Gli esseri umani devono negoziare continuamente lo spazio e l’unione. Una parte fondamentale dell’essere vivi è imparare a scendere a compromessi, ad andare oltre noi stessi».

Una delle sue protagoniste dice che le piacciono i libri «perché sono uno dei modi in cui possiamo immaginare noi stessi altrimenti».
«I libri sono straordinari. Li leggiamo isolati, solo noi, le pagine e la storia, e loro agiscono in modo comunitario e portano un’altra voce nel profondo di noi stessi e dell’immaginazione, una voce piena della possibilità di altre voci».

A chi parla quando scrive?
«Non parlo a nessuno. È il libro che parla, e lo scrittore che fa del suo meglio per ascoltarlo, per produrlo nel mondo nel modo più completo possibile. Penso che sia come l’archeologia. Devi dissotterrare la cosa che stai scrivendo, con la massima delicatezza, sensibilità e completezza possibile, per non rovinarla o distruggerla nelle tue mani».

La letteratura è per tutti?
«Sì. Tutte le arti lo sono. Sono l’opposto di un’élite, ci aiutano a capire quelle cose che non sono facili da dire o da vivere. Aspettano di coinvolgerci. Sono felici di sconvolgerci la vita. Ci fanno essere presenti. Chiedono la nostra presenza e la garantiscono. E noi possiamo avvicinarci a loro nel modo che preferiamo: resistendo, aprendoci, appassionandoci, infuriandoci, diffidenti, curiosi, indifferenti. Dialogheranno con noi, comunque e chiunque noi siamo, e questo dialogo ci dirà tutto e ci darà sia noi stessi che il mondo»

Fallimento e successo. Come li definisce lei?
«Mi è venuta subito in mente questa canzone quando me l’ha chiesto: I dont’ mind failing di Malvina Reynolds. (Dice la strofa: Non mi dispiace fallire. Perché quelli che hanno successo sono figli di puttana, ndr. Grazie per avermela ricordata!