Tuttolibri, 27 maggio 2023
Su "I miei fantasmi" di Gwendoline Riley (Bompiani)
Marguerite Duras scriveva «mia madre è stata per noi una grande pianura dove abbiamo camminato a lungo senza coglierne la misura». Sono parole più dolenti eppure coincidono con il punto di vista di Bridget, la protagonista de I miei fantasmi, una quarantenne spaesata, sorella di Michelle, fidanzata di John e soprattutto figlia di Helen Grant, detta Hen.
Gwendoline Riley, autrice inglese di successo scrive un romanzo snello e folgorante su un classico letterario, il rapporto madre figlia, e lo fa scatenando il sarcasmo britannico e lavorando all’osso sulla sottrazione dei personaggi. Il libro si apre sulla figura del padre di Bridget (ormai morto), bislacco ed egocentrico, mal sopportato dalle due sorelle costrette a frequentarlo (da giovanissime) come di consueto, secondo le regole del divorzio. L’immagine dell’uomo lascia presto spazio alla grande protagonista del romanzo, la mamma di Bridget: sola, depressa, alla perenne ricerca di un fidanzato, accumulatrice seriale, vive a Manchester in un appartamento circondato da studenti che è il suo grande cruccio; la sua unica consolazione pare l’amicizia con Gary, un vecchio gay per cui prova sentimenti altalenanti: dalla simpatia all’intolleranza. Helen e Bridget si vedono esclusivamente nel mese di febbraio, a Londra, per festeggiare i loro compleanni che cadono a una settimana di distanza. Si incontrano nei ristoranti, si scambiano biglietti di auguri mentre le conversazioni che mette in scena la scrittrice dimostrano l’incapacità emotiva di entrambe di trovare una qualsivoglia forma di contatto. Come una danza estenuante, fatta di vuoti, superficie, bicchieri di vino, madre e figlia non fanno che beccarsi, ritrarsi e allontanarsi. Bridget si corazza dietro domande di circostanza, asseconda la madre, eppure cerca di scuoterla mentre l’anziana signora si forza di mangiare l’insalata che le ha ordinato la figlia, di finire la quadrilogia della Ferrante che le ha regalato, dichiarando che non la capisce, non le interessa eppure arriverà fino in fondo.
Il comportamento passivo aggressivo di Hen ha un riverbero immenso su Bridget, che finisce per sfiorare l’incredibile: si rifiuta di farle conoscere il suo fidanzato anche se la madre reclama quell’incontro come qualcosa di normale, proprio come l’interesse di visitare «il nido» dove la ragazza e il suo compagno si sono sistemati. Ma Bridget è categorica e inamovibile, non vuole schiudere il suo mondo, sembra che la presenza della madre possa intaccare quella quiete che si è conquistata a morsi. Quando Hen si fa male a una gamba e chiede alla figlia di passare qualche giorno nel suo appartamento, Bridget è terrorizzata; la televisione a tutto volume, gli oggetti accatastati ovunque, l’umore di Hen, tutto rappresenta un abisso.
Riley sceglie deliberatamente di non raccontare la sua protagonista, non la descrive, di lei sappiamo pochissimo, l’età «le sfugge di mano» a fine romanzo mentre i sentimenti alienanti che prova e il congelamento emotivo nel quale naviga sono reiterati sulla pagina facendo di questo libro un piccolo capolavoro sull’enigma relazionale tra madre e figlia. Sono bellissime le lunghe conversazioni tempestate da «Santo Cielo» e «Oh no» che le due si scambiano, in una battaglia che solo loro conoscono e che pure appartiene da sempre a molte generazioni.
La perfetta traduzione di Tommaso Pincio risolve diversi giochi lessicali con i quali Riley si diverte ferocemente e strappa sorrisi. I miei fantasmi (titolo che racchiude un doppio senso, c’è il fantasma corporeo di Hen e la percezione interiore della figlia), è un brillante e asfittico ritratto familiare dove ogni incontro rappresenta l’arena sentimentale in cui entrambe le parti vogliono qualcosa di più, o di diverso, da quello che l’altra è disposta ad offrire. «Le piacevano le situazioni farsesche. Gli incidenti sfiorati o le coincidenze nefaste. Le offrivo anche quelle; a volte me le inventavo di sana pianta». Bridget in alcuni squarci rivela come l’eredità materna l’abbia ferita, sottolinea che ciò che detestiamo alla fine inevitabilmente ci abita. La scrittrice riflette sull’invecchiamento. Scandaglia le profondità di uno dei passaggi più terrificanti dell’età adulta: la morte dei genitori che si avvicina, contro la quale alcuni di noi sono totalmente disarmati. Certe madri vanno via sotto i nostri occhi ed è lapalissiano che non le abbiamo mai conosciute. Quando infine Helen si ammala e Bridget si ritrova in una stanza d’ospedale con lei, come la Simone de Beauvoir di Una morte dolcissima, assistiamo all’ultimo atto, sperando in un movimento affettivo, una resa. Ormai è tutto in mano alla figlia, Helen è del tutto «disarmata» dal suo male, eppure per Bridget il fastidio vince sulla pena, l’intolleranza sulla commiserazione. Alla fine resta l’immagine di un corpo che una figlia ha tentato di amare senza (davvero) sapere come. Resta la verità dura e cruda.