l’Espresso, 26 maggio 2023
Su "Il mare colore veleno. Indagine su uno dei più grandi disastri ambientali del Paese" di Fabio Lo Verso (Fazi)
Prima fu il petrolio, più tardi la chimica, quindi il cemento. Si prendono tutto. Tra Augusta, Melilli e Priolo sventrano la terra, cancellano villaggi. Ammorbano l’aria. Avvelenano il mare e la falda. E con le fiamme dei camini, con i neon di viali squadrati e deserti accendono a giorno le notti della baia, mai più placida, solcata da cargo e cisterne in un andirivieni tumultuoso sotto i bagliori di quelle luminarie. Nutrono i pesci di acidi, insozzano l’acqua di lordure, appestano di misture la posidonia esanime. E non è sufficiente. Noi crediamo di pagare subito e in quel modo il prezzo dell’illusione. Più indifferenti che inconsapevoli, ci è comodo ignorare che siamo parte del conto. Che lo lasceremo ai figli e ai figli dei figli. Del debito non intravediamo il saldo. Non è bastato consegnarci a un’esistenza da mutanti di un sogno industriale che non è il nostro, darci da vivere con la paga dell’inferno quotidiano, imporci lutti e poi irridere le nostre perdite nello sberleffo di una giustizia quasi sempre clemente con il potere. Mentre millantano bonifiche di carta, lasciamo impronte lì dove il sottosuolo restituisce l’indicibile che dicevano sepolto. E che ancora può uccidere. Proprio mentre ci ripetiamo che non avevamo scelta. Che ci presero per fame, quasi ad assolverci del consenso tributato a una classe politica imbelle e dell’ossequio riservato al capitale dei nuovi colonialisti: settentrionali, privati e pubblici, atlantisti, russi e chissà cos’altro. Rimaniamo ammaliati dal suono delle sirene dei capannoni. È musica che porta note di progresso, racconta di un mezzogiorno riscattato. Che però cerca nell’altro da costruire e non nell’oro che possiede il proprio avvenire. Così ci portano il futuro sotto, intorno e dentro casa. Indicandoci un orizzonte di abbondanza a chilometro zero, a patto di dimenticare quale sia quello che ci appartiene. E di non guardare più dalle finestre perché il Mediterraneo scompare dietro la selva di tralicci e comignoli. Quando siamo costretti a serrare gli scuri, immaginando di arginare così il puzzo che ci torce le budella negli spasmi della nausea, con la polvere che si porta via i polmoni, ci ripetiamo che è tutta questione di vento. Se tira di là ti risparmia, se gira di qua no, ma non dura tanto. E poi, basta allontanarsi di poco: se vai verso Catania non è poi così male, a Brucoli ci sono i turisti, e giù c’è Siracusa, il Plemmirio, l’azzurro e il verde che ti guidano fino all’incanto. Dopotutto, la Sicilia è un’isola, ovunque ci sono spiagge, cosa vuoi che sia sacrificarne qualche chilometro per la ricchezza? Rassegnati. Per non inerpicarci più, infagottati nella nostra goffaggine, su per i tre scalini del Treno del Sole direzione Nord, con appresso le valigie strabordanti, scrigni della nostra miseria, accettiamo di indossare tute da operaio su mutandoni ruvidi da contadini. Voltiamo le spalle agli occhi muti degli dèi che a prua dei gozzi vigilano la rotta per calare le reti. Lasciamo quei legni all’ormeggio convinti che il sogno ci ha raggiunto. E ce ne andiamo a stipendio e sindacato. A lavorare per i petrolieri, per i capitani dell’industria, per i signori del calcestruzzo. E ci occupiamo pure di smaltirgli la spazzatura. Sotto, intorno e dentro casa. E dove se no? Anzi, finiamo per importarla, di spazio ne abbiamo. E c’è sempre il mare. Ci facciamo campi di calcio e strade e palazzi sopra i massetti che dovrebbero tappare le scorie. E contenti ringraziamo pure chi ci porta soldi, agio, divertimento e modernità. Liquidiamo come farneticazioni le parole di chi attenta al nostro benessere. Mestatori e detrattori che blaterano di vittime, neonati malformati, incidenti sul lavoro. Non vogliamo vedere, né sentire. E neppure contare i morti. Sudditi di un sogno che la realtà non deve fugare. E che proviamo a far durare il più a lungo possibile. Se un manager fugge, ne aspettiamo ansiosi un altro. Se una famiglia prende il largo, aspettiamo che approdi una compagnia. Se la geopolitica degli affari impone nuovi partner, ce li facciamo piacere. Come con la Marina, la Nato e il rischio nucleare. E non smettiamo, attaccati come ci hanno lasciati alla sopravvivenza del ricatto che non prevede scelte sul pane da portare in tavola. Sul bordo degli Ottanta, Enzo Maiorca (Siracusa, 1931-2016), una vita in apnea in quelle stesse acque che aveva visto purissime me la raccontò così: «A nord di Siracusa pagammo il prezzo all’industrializzazione del petrolchimico, creando generazioni di “spostati”, contadini e pescatori entrati in fabbrica, sradicati dal loro ambito e dalle loro idee. Allora, negli anni Cinquanta, ci sembrava un giusto prezzo per uscire dalla miseria. E così questo mare lo abbiamo visto di tutti i colori: rosso, grigio e con le mèches. Ci consolava sapere che rimaneva salva la costa di levante e quella a sud. Non è così, niente è più al riparo dalla voracità». Questa è la storia che racconta il lucido e implacabile reportage di Fabio Lo Verso con le foto di Alberto Campi, “Il mare colore veleno” (ed. Fazi). Un viaggio in piano su pochi chilometri di superficie, denso nella profondità delle testimonianze, dell’analisi, dei risvolti e delle implicazioni lungo un pezzo di Sicilia che è nell’itinerario delle guide ma che rimane fuori dagli spot e dalle cartoline turistiche. L’indicibile specchio della nostra vergogna.