Corriere della Sera, 27 maggio 2023
Trent’anni fa la strage di Firenze. I misteri irrisolti
Inizialmente il furgone da trasformare in autobomba doveva essere blu. «Eravamo orientati a rubarne uno da adattare con le opportune scritte “Carabinieri”, per le quali mi ero portato dietro le relative lettere», ha raccontato il mafioso pentito Gaspare Spatuzza. Poi però decisero che non serviva: «A seguito di sopralluoghi è stato visto che non c’erano particolari problemi di accesso, quindi bastava un normale Fiorino». Spatuzza ne trovò uno bianco vicino alla stazione, lo aprì con uno «spadino», e con un complice lo portò in un rifugio alle porte di Prato. Erano le 19.30 del 26 maggio 1993.
Poche ore più tardi, alle 1.04 del 27 maggio, quello stesso furgone carico di oltre un quintale e mezzo di esplosivo saltò in aria in via dei Georgofili, alle spalle della Galleria degli Uffizi a Firenze, facendo crollare un pezzo della trecentesca Torre dei Pulci, gli appartamenti che ospitava e quelli limitrofi. Morì l’intera famiglia di Angela Fiume, trentunenne custode dell’Accademia dei Georgofili, con il marito Fabrizio Nencioni e le due figlie, Nadia di 9 anni e Caterina di nemmeno 2 mesi. Il ventiduenne Dario Capolicchio, invece, morì a casa della fidanzata Francesca Chelli, rimasta gravemente ferita insieme ad altre 47 persone.
Vittime «collaterali»
Bersaglio degli attentatori non erano però le persone bensì il luogo: la Galleria degli Uffizi. Un concentrato di arte e di storia che, una volta eliminato, nessuno avrebbe potuto rimpiazzare. A differenza degli uomini. Una valenza terroristica rafforzata dalla minaccia di poter colpire — volendo — di giorno, uccidendo chiunque. Come nelle stragi neofasciste degli anni Settanta, quelli della «strategia della tensione».
Secondo Spatuzza, mandato a Firenze dal suo capoclan Giuseppe Graviano, i due mafiosi che andarono a parcheggiare il furgone-bomba gli dissero «che il Fiorino era stato lasciato a poca distanza dal vero obiettivo della strage, perché se non ricordo male avevano visto un vigile o qualcosa del genere».
Ma come furono scelti gli Uffizi e, due mesi più tardi, il Padiglione d’arte contemporanea di Milano? E, a Roma, la chiesa medioevale di San Giorgio al Velabro e il palazzo del Vicariato attaccato alla basilica di San Giovanni? Chi suggerì agli stragisti corleonesi e ai loro seguaci — guidati da Totò Riina, suo cognato Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano, contadini semianalfabeti prima ancora che capimafia — bersagli così significativi e raffinati?
È uno dei misteri rimasti irrisolti dopo trent’anni di indagini e processi conclusi con una ventina di condanne tra esecutori e mandanti. L’ipotesi di presunti «mandanti occulti» prende piede proprio da questa domanda, giacché le spiegazioni date dai collaboratori di giustizia non sembrano sufficienti.
Le foto sul tavolo
Ancora Spatuzza — prima di parlare di un presunto accordo politico di Graviano con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che naturalmente hanno sempre smentito, su cui ancora oggi indaga la Procura di Firenze dopo varie archiviazioni e riaperture d’inchiesta — ha raccontato che la decisione gli fu annunciata da Graviano in una riunione con altri mafiosi, compreso Matteo Messina Denaro: «Mi comunica che siamo lì per mettere a punto l’esecuzione di un attentato su Firenze. Sul tavolo ci sono dei depliant, o dei libri con delle figure artistiche, se così possiamo dire, dei monumenti. Per quello che ho potuto capire, loro avevano già effettuato dei sopralluoghi, perché per come ne parlavano erano già a conoscenza dei posti».
Lo scopo dei mafiosi era ricattare lo Stato per ottenere l’alleggerimento delle misure antimafia decise dopo gli attentati del ’92, a cominciare dal «carcere duro». Giovanni Brusca, esecutore materiale della strage di Capaci, sostiene di aver parlato dell’attentato ai Georgofili con Messina Denaro un paio di anni dopo. Gli chiese come avevano individuato gli obiettivi, e il boss di Castelvetrano rispose «tramite le guide turistiche».
L’enigma Gioè
Di sicuro, fuori da Cosa nostra, ci fu chi parlò con i mafiosi della strategia messa in atto con le bombe del ’93: il neofascista Paolo Bellini, trafficante di opere d’arte e confidente di poliziotti e carabinieri, killer su commissione recentemente condannato in primo grado per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Nell’autunno ’91 Bellini contattò il mafioso Nino Gioè (che di lì a pochi mesi avrebbe partecipato alla strage di Capaci), conosciuto in carcere, per un recupero crediti da fare in Sicilia, e il discorso finì su attentati a monumenti e strategie terroristiche.
Racconta Brusca, al quale lo disse Gioè, che il mafioso e il fascista «parlarono degli effetti di un attentato alla Torre di Pisa e delle conseguenze sul turismo di una eventuale disseminazione di siringhe infette sulle spiagge di Rimini». Bellini, secondo il pentito, «non consigliò di attuare un qualche attentato, ma fu sicuramente quello che suggerì le idee».
Sembra una risposta alla domanda iniziale, ma non basta. Sia perché Bellini ha negato di essere stato il suggeritore, sia perché bisognerebbe comunque capire per conto di chi parlava. Gioè è morto nel carcere di Rebibbia il 28 luglio 1993, a poche settimane dall’arresto e all’indomani degli attentati di Milano e Roma. Forse portando con sé anche qualche segreto sulle bombe in continente. Ufficialmente fu un suicidio, con tanto di lettera di addio completa di riferimenti proprio a Bellini. Ma da un anno la Procura di Roma ha riaperto l’indagine (su input della Direzione nazionale antimafia) per accertare se davvero si impiccò, o fu impiccato.