Corriere della Sera, 27 maggio 2023
Intervista a Alberto Gilardino
Ha ereditato una squadra costruita per dominare il campionato quando era più vicina alla zona play-out che alla vetta della classifica. Le ha restituito forza, grinta e quel morale necessario per far sì che la promessa del presidente del Genoa Zangrillo «Only one year» (in serie B) diventasse realtà. E adesso se la gode: Alberto Gilardino può finalmente lasciarsi andare, dopo aver centrato la promozione in A grazie ad una cavalcata inarrestabile. 2,22 punti di media a partita e solo due sconfitte in 23 giornate. Ed è già proiettato su cosa verrà dopo.
Il futuro, suo e del Genoa, cosa prevede?
«A breve ci incontreremo, sia io che la società vogliamo continuare insieme. Quando si va d’accordo basta poco per raggiungere un’intesa. Per me allenare il Genoa è una grandissima opportunità e motivo d’orgoglio».
Con quali obiettivi? «Una salvezza tranquilla senza precluderci obiettivi un po’ più ambiziosi. Vogliamo attrezzare la squadra e fare un campionato giusto, tra momenti di gioia e difficoltà. Fondamentale la coesione».
La serie A le fa un po’ paura?
«È un campionato diverso, dovremo farci trovare pronti ma paura no. Come non ne ho avuta quest’anno, in cui ho cercato sempre di mantenere equilibrio con obiettivi chiari. La A va affrontata costruendola prima».
Che voto si dà per la stagione appena conclusa?
«Non sono abituato a darmi dei voti da solo, mi fa piacere che me li diano le persone che hanno lavorato con me: giocatori, staff, tifosi. Quello è gratificante. Come l’affetto che ci ha dato il nostro popolo».
Chi è la prima persona che ha sentito dopo la partita-promozione?
«Non ho toccato il cellulare per un po’ perché abbiamo festeggiato. Allo stadio c’erano i miei genitori, le mie figlie, mia moglie, tutte le persone che mi hanno sempre appoggiato nelle esperienze della mia vita. Quest’anno ho perso mia nonna che per me era come una seconda madre, quindi una dedica speciale va a lei. Poi non ho mai ricevuto così tanti WhatsApp: 700-800 persone a cui sto cercando ancora ora di rispondere. Ringraziamoli qui pubblicamente…».
Da tecnico ha fatto la gavetta: serie D, serie C, Primavera. C’è stato un momento in cui ha pensato che non fosse il lavoro giusto per lei?
«Mai. Dentro di me era troppo forte la voglia di allenare, di arrivare, la passione che ho per questo sport. Ricordo che mi davano per matto quando accettai Rezzato, Vercelli o Siena, lontano da casa. Quello mi ha dato la consapevolezza giusta per raggiungere quanto fatto quest’anno. Se uno persevera, poi riesce. Dopo tutti i sacrifici che ho fatto, io quest’anno una risposta l’ho avuta».
Quanto è difficile gestire 30 teste diverse?
«Mi piace. Tanto. Da giocatore pensi all’aspetto personale, seppur all’interno di un gruppo, mentre da allenatore devi pensare ad altre 20-25 persone. Amo questo lavoro da quando ho iniziato sei anni fa. Amo lavorare con i ragazzi, stare in gruppo, relazionarmi, confrontarmi. Aspetti determinanti per un allenatore».
Ormai il calcio si divide tra giochisti e risultatisti: come si considera?
«Nella mia carriera ho avuto grandi maestri, ma quando sei tu a decidere è tutta un’altra cosa. Devi prenderti responsabilità, determinare. Quando si arriva in un posto, bisogna capire dove ci si trova, che materiale umano si ha a disposizione e da lì partire. Le grandi imprese si costruiscono con gioco, tattica e psicologia. Poi ci sono anche gli aspetti tecnici e l’analisi degli avversari. Quest’anno è stato fondamentale il rispetto reciproco che c’è stato tra i calciatori e me».
Ancelotti, Gasperini, Lippi, Prandelli, Mihajlovic ma non solo. C’è qualcuno che le ha lasciato qualcosa in più?
«Ognuno ti lascia qualcosa. Chi più burbero, chi più tattico, chi più bravo a gestire il gruppo. Ma se si prendono gli aspetti positivi qualcosa di buono arriva sempre».
Tre italiane in finale di tre competizioni europee diverse. Sensazioni?
«Bellissimo. Il calcio italiano sta tornando. Il City è uno squadrone e parte favorito, ma l’Inter ha singoli di grande qualità e in gara secca può dire la sua. Quella della Roma di Mourinho è una vera impresa, qualcosa di straordinario. E per la Fiorentina si tratta di un traguardo storico: merito di Italiano e di Commisso, oltre che dei ragazzi».