ItaliaOggi, 27 maggio 2023
Orsi & tori
È più pericoloso e più grave il possibile conflitto Usa-Cina o la reale diaspora che agita l’Europa, che invece dovrebbe essere unita?
Se si ragiona dal lato dell’Italia, il pericolo è analogo e addirittura diventa gravissimo se si sommassero i due fattori, ipotesi tutt’altro che impossibile.
Per esempio, anche se la notizia non è nuova ma ora è stata quantificata, l’Europa (e quindi l’Italia) dipende al 56% dalla Cina per le fondamentali terre rare e materie prime. Che cosa potrebbe succedere se gli Usa insistessero con la presidente Giorgia Meloni perché non rinnovi l’adesione alla Via della Seta, quando presumibilmente andrà a Pechino in autunno proprio in vista della scadenza dell’adesione a fine anno?
L’Italia non è poverissima di terre rare che servono per i chip e i pannelli solari. Ma la Cina non solo ha conquistato le
terre rare di quasi tutta l’Africa: offrendo aiuto a moltissimi paesi africani, ha messo l’ipoteca anche sulle materie prime del continente con le prospettive future più importanti, il continente da civilizzare e industrializzare, togliendo molti paesi dalla miseria nera. Su questi paesi, grazie agli accordi stipulati in varie direzioni sfruttando anche il regime politico ispirato al maoismo, Pechino ha avuto campo libero grazie al sostanziale disinteresse degli Stati Uniti, pure avendo avuto gli Usa di etnia afroamericana uno dei suoi migliori presidenti della storia, l’avvocato Barack Obama.
Non è la prima volta che lo scrivo ma Obama esordì con un discorso straordinariamente alto sull’Africa a Il Cairo; poi, in otto anni, è tornato in Africa solo due volte senza ottenere risultati particolarmente significativi. In Africa i paesi filoamericani si contano sulle dita di una mano. Mentre la Cina, per conquistarne la fiducia e la partecipazione allo sviluppo e allo sfruttamento delle risorse naturali, hanno costruito ferrovie, linee telefoniche, ospedali e ogni infrastruttura che garantisse a Pechino un legame quasi indissolubile con quei paesi.
Si potrebbe chiedere: ma cosa c’entra tutto ciò con la domanda iniziale e cioè se è più pericoloso lo scontro possibile fra Cina e Usa (specialmente se dovesse essere rieletto presidente Donald Trump, ipotesi per fortuna remota) o la reale diaspora esistente in Europa? C’entra eccome, perché se si dovesse radicalizzare lo scontro Usa-Cina la prima ad andarci di mezzo sarebbe proprio l’Europa (e l’Italia che ha il debito più alto). L’Europa che vedrebbe accentuarsi ulteriormente l’aria di crisi della Ue, nonostante gli sforzi che fanno coloro che da Bruxelles tentano di mostrare un’Europa unita. Per esempio, mentre sulla scia americana in vari paesi europei cresce lo scetticismo verso Pechino, ci sono alcuni membri dell’Unione che non vogliono e non possono prescindere dalla Cina. Uno per tutti, come esempio: l’Ungheria governata da Victor Orban. «La cooperazione tra Ungheria e Cina presenta opportunità significative piuttosto che rischi», ha dichiarato papale papale il ministro degli esteri Peter Szijjarto quando è stato a Pechino il 15 maggio. È vero, l’Ungheria è anche il maggior sostenitore della Russia in Europa, ma almeno al momento non ha sviluppato nessuna missione a Mosca, mentre ha intensificato il dialogo con Pechino.
Ma da un altro lato e paradossalmente la Cina, sia per il suo peso economico che per il dichiarato impegno di Xi Jinping per favorire la pace in Ucraina, potrebbe rappresentare un nuovo collante nell’Unione, se solo tutti i paesi europei facessero i conti con le loro realtà economiche verso la Cina. Si prenda la Germania: le decine e decine di Jumbo pieni di imprenditori organizzati negli anni da Angela Merkel e diretti a Pechino hanno reso all’economia tedesca una importantissima fetta del suo pil.
Sono passati più di 50 anni dal viaggio a Pechino del presidente Richard Nixon e del formidabile segretario di stato, Henry Kissinger (auguri Professore per i 100 anni) con il conseguente avvio della diplomazia del ping pong. Nixon e Kissinger atterrarono forse a Pechino per puro spirito umanitario, visto quante centinaia di milioni di cinesi facevano la fame? Forse anche un po’ anche con questo spirito, ma essenzialmente per altre due solidissime ragioni: avviare essi lo sviluppo di un grande mercato con la politica della globalizzazione e, secondo appunto, produrre sempre di più in Cina ai prezzi nettamente più bassi del mondo. Come si spiegherebbe diversamente che l’azienda americana più avanti tecnologicamente degli ultimi 30 anni, la Apple, abbia deciso di produrre in Cina la stragrande quantità prima di computer e poi di iPhone e iPad?
Per decenni i cinesi sono diventati e sono stati considerati i più grandi copiatori del mondo; ma copiatori con la ferrea volontà di imparare e infatti oggi in molte tecnologie, per esempio nel calcolo quantistico, hanno raggiunto capacità nettamente superiori alle vette degli americani, grazie alla tecnologia ottica invece che a bassa temperatura, come hanno scelto gli americani. E poi nel 5G, per il quale gli Usa hanno imposto agli alleati occidentali, «per ragioni di sicurezza» di non usare la tecnologia di Huawei, al punto da generare di fatto un arresto di questa evoluzione nel mondo occidentale.
Era inevitabile che producendo apparecchi tecnologici un paese con 1,5 miliardi di abitanti, fra i quali poter selezionare centinaia di migliaia di super cervelli, arrivasse a conquistare alcuni primati. Tanto più, vale ripeterlo, che finora per afflato democratico, gli Usa hanno tenuto tutte le porte delle migliori università (private) aperte a centinaia di migliaia di studenti cinesi.
Quindi, di fronte a questo scenario, era tutt’altro che peregrina l’idea del presidente francese Emmanuel Macron che l’Europa diventasse realmente un continente unito, per non rimanere o gregario degli Usa, a cui va la riconoscenza di aver contribuito in maniera fondamentale alla sconfitta di Adolf Hitler nel vecchio continente, e anche per non rimanere schiacciato fra le due superpotenze. Ma finora l’appello di Macron, che peraltro ha i suoi seri problemi in patria, è rimasta lettera morta. E lo rimarrà ancora a lungo, almeno fino a quando, almeno i sei paesi fondatori dell’Europa unita non riusciranno a condividere alcune normative fondamentali analoghe se non uguali, come quella del diritto commerciale e penale e quella del fisco. In queste due fondamentali normative, anche fra i sei paesi fondatori dell’Europa ci sono differenze talmente profonde che i paesi più piccoli, Lussemburgo, Paesi Bassi e parzialmente il Belgio, fanno sleale concorrenza agli altri sulle regole dell’economia e dei mercati borsistici. A cui si aggiunge che, pur di far crescere il numero degli aderenti, ad altri paesi più piccoli come l’Irlanda è stato consentito di praticare un trattamento fiscale ridicolo rispetto alle aliquote degli altri paesi più grandi. Dispiace dirlo perché il suo afflato era vero e idealmente giusto, ma la grande spinta alla crescita degli aderenti alla Ue determinato dall’allora presidente della Commissione, Romano Prodi, si è rivelato fallace. Per una semplice ragione: all’epoca la coesione fra i paesi partecipanti non era ancora così forte da poter accogliere senza scossoni realtà politicamente ed economicamente diverse. Prodi, però, vide l’opportunità umana di aprire le porte ai paesi che avevano sconfitto il comunismo dopo la caduta del muro di Berlino. Giusto, ma sarebbe stato necessario fissare standard minimi fondamentali per entrare e allungare il periodo di omogeneizzazione rispetto a quanto è avvenuto.
Sia come sia, oggi l’Europa traballa e se non riesce a imporre una sua presenza autonoma, ne farà le spese nel confronto fra Usa e Cina. E in modo specifico ne farà le spese chi, fra i paesi europei, ha puntato molto sullo sviluppo della Cina.
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C’è aria di sollievo e di soddisfazione, perfino da parte di un ministro di grande saggezza ed equilibrio come quello dell’economia, Giancarlo Giorgetti. Mi riferisco all’annuncio che finalmente si è conclusa la trattativa per la cessione del 41% di Ita a Lufthansa. «Finalmente sciolto un nodo quarantennale», ha detto Giorgetti. È sicuro che il terribile quarantennio di Alitalia si è chiuso nel migliore dei modi? Che fosse necessaria l’alleanza con una grande compagnia era logico e saggio, ma la soluzione adottata non è un’alleanza, essendo stato reso noto che Lufthansa ha l’opzione per trasformare il suo 41% in maggioranza assoluta e forse di più. Sarebbe bene quindi dire che l’Italia ha rinunciato ad avere una compagnia di bandiera, con tutto quanto ne consegue.
L’aspetto più inquietante è che una soluzione a maggioranza italiana, ugualmente con dentro Lufthansa ma in minoranza, era stata trovata ma è saltata per una serie di giochi politici condotti dall’ex-vicepresidente della Camera, appartenente al partito che ora guida il governo, Fabio Rampelli, vicino ai sindacati ex-Alitalia e sostenitore di una soluzione tutta italiana, su cui si è inserita una contesa interna al consiglio d’amministrazione di Ita provocata dall’amministratore delegato Fabio Lazzerini.
La soluzione era stata costruita dal presidente operativo, Alfredo Altavilla, manager di altissimo livello certificato dall’essere stato braccio destro di Sergio Marchionne. Responsabile fra l’altro di tutta la logistica di Fca (Fiat Chrysler Automobiles), Altavilla aveva accertato l’interesse ad assumere il controllo dell’ex-Alitalia dell’italiano di maggior successo nel trasporto navale e delle crociere, Gianluigi Aponte, proprietario di Mediterranean shipping company e di Msc crociere.
Aponte era pronto ad acquisire la maggioranza di Ita con Lufthansa in minoranza. Sennonché l’onorevole Rampelli ha innescato una forte polemica sostenendo che Aponte, nato e vissuto a Sorrento, fosse svizzero, vivendo ora effettivamente in Svizzera avendo sposato una signora svizzera. Il cerino acceso da Rampelli ha provocato altre reazioni fino al punto che Aponte ha deciso di non farne più niente, ha subito acquistato una piccola flotta di aerei da trasporto, integrando le navi con gli aerei, e Altavilla è stato messo in condizione di lasciare la presidenza.
Nel frattempo il governo Draghi ha ceduto il passo, dopo le elezioni, al governo di centro destra, che non ha ritenuto di fare marcia indietro, richiamare Aponte e Altavilla e creare un sistema di trasporti aerei passeggeri e cargo completamente integrato, con la possibilità di sviluppo del turismo anche attraverso Msc crociere. Era la formidabile occasione di avere 1) la ex-Alitalia privata; 2) la collaborazione di Lufthansa che si era già accordata con Aponte, e 3) un sistema integrato mare aria, passeggeri e trasporti merce. Quindi piena valorizzazione degli aeroporti, di tutti gli aeroporti, e dei porti italiani, mentre prima ancora che giovedì 25 fosse annunciato l’accordo governo-Lufthansa, si è già diffusa la notizia che Lufthansa punterà tutto su Fiumicino e Linate, lasciando in subordine, molto in subordine, Malpensa che invece potrebbe svolgere un ruolo fondamentale non solo per collegare tutto il Nord Italia con il resto del mondo ma anche per raccogliere viaggiatori del Canton Ticino e di altri paesi stranieri confinanti con l’Italia.
C’è chi sostiene che Lufthansa sia un vero specialista come gestore in maggioranza di altre compagnie di altre nazioni. Che Lufthansa sia abile gestore non vi è dubbio, ma anche per questo Aponte e Altavilla erano ben lieti di averla a bordo; ma non ci vuole il genio o una attitudine al sospetto per pensare che il cuore di Lufthansa è in tutti casi la Germania e che quindi un paese che vive di turismo come l’Italia non potrà più contare su una compagnia che oltre a perseguire il profitto sia strumento al servizio totale dell’Italia. Si dirà: siamo o non siamo in Europa? È o non è la Germania il paese guida dell’economia europea? Lo è, non ci sono dubbi e chiunque abbia volato con Lufthansa sa che è efficiente, anzi super efficiente. Ma, per esempio, per la Cina, paese fondamentale per le aziende italiane, gli imprenditori del Nord con Alitalia partivano in diretta da Milano, quelli del centro-sud partivano da Roma. Lufthansa conserverà voli diretti dall’Italia per tutto il mondo o offrirà il servizio dagli aeroporti tedeschi? Già oggi opera così: con voli, per esempio da e per Firenze, porta chi vuole andare in Cina o in Usa facendo scalo a Monaco o Düsseldorf.
Ma è come scoprire l’acqua calda, quanto è sotto gli occhi di tutti: l’Europa non è Europa salvo quando si tratti di attività utili a chi è il numero uno in Europa. Peccato che l’Italia sia il paese europeo, insieme alla Spagna, più importante per il turismo da tutto il mondo. C’è solo da augurarsi che nel contratto appena firmato dal governo con Lufthansa sia previsto il diritto per l’Italia di cedere a italiani la maggioranza del 59% o che ci possa comunque essere una voce italiana di pari peso di quella tedesca nella futura nuova Ita, o Alitalia che venga ribattezzata.