il Giornale, 27 maggio 2023
Com’era conservatore il lettore Carmelo Bene
L’eredità di un genio è difficile da collocare. Lui potrebbe prenderla a male. E se il luogo non fosse all’altezza? Se fossero delle stanzucce borghesi-borghesi? O se fosse una location fornita dalla burocrazia statale? (E poi, location: che parola orribile, Lui la detesta!). O se fosse troppo spettacolare? Ci vuole poco a scivolare nel kitsch... Scegliere è difficile, soprattutto se Lui ha il carattere che ha. Invece la sua Puglia ha scelto col superlativo assoluto del suo cognome: Benissimo. Lo spazio in cui è stata collocata l’eredità materiale di Carmelo Bene (1937-2002), pugliese di Campi Salentina, Càmpie, al confine fra Lecce e Brindisi, in bilico fra teatro e poesia, è perfetto: ampio, luminosissimo, color della pietra leccese, fra il bianco e il giallo della paglia. Tre lunghe sale i cui finestroni ad arco si affacciano sull’antica chiesa del Carmine, pieno centro storico, piena esuberanza barocca, e l’adiacente convento dell’ordine dei fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. Il nome è un destino. Il sacro e il Profeta. Benvenuti all’Archivio Carmelo Bene, dentro gli spazi dell’ex Convitto Palmieri di Lecce, la sua città, premio e castigo, nella terra di Puglia, fra Magna Grecia e Grecia Salentina. Acquistato dalla Regione Puglia nel 2019 per 160mila euro dopo una annosa vicenda legale, fra testamenti impugnati e volontà disattese (come la fondazione «L’Immemoriale», poi cancellata) grazie a un accordo firmato con le eredi di Carmelo Bene, la vedova Raffaella Baracchi e la figlia Salomè (senza la volontà delle quali tutto ciò non sarebbe stata possibile), poi allestito al piano nobile del Convitto Palmieri, dove ha sede anche la Biblioteca provinciale Nicola Bernardini, l’archivio è stato aperto al pubblico nel settembre 2021, con la cura di Brizia Minerva. Ma oggi è il direttore Luigi De Luca ad accompagnarci nella visita. Di qua una lunghissima libreria a parete con i 4600 volumi della biblioteca personale di Carmelo Bene che era per lo più nella sua Casa dei teatri di Villa Doria Pamphilj a Roma. Là una ventina di abiti di scena fra quelli che si sono salvati dalla dispersione e che erano custoditi nella casa di Otranto: costumi per Otello, Hommelette for Hamlet, Riccardo III, Pinocchio, La cena delle beffe, Macbeth-Horror Suite. E tutt’intorno alcuni oggetti personali: una poltrona, lo specchio (che per un attore, e tanto più per un genio, è tutto), il suo enorme televisore, alcune locandine storiche dei suoi spettacoli, e persino i due grandi angeli «berniniani» realizzati dall’artista Gino Marotta, legatissimo a Carmelo Bene, per lo spettacolo Hommelette for Hamlet del 1987 e che proprio grazie alle scenografie vinse il Premio Ubu. Più che un nudo archivio, è un piccolo museo. Apparentemente un frammento dell’immenso lavoro creativo di Carmelo Bene – che fu attore, regista, drammaturgo, filosofo, scrittore e poeta – in realtà un generatore di progetti «carmelitani»: film e documentari, spettacoli, mostre, tesi di laurea, studi, ripubblicazioni... Come dice il direttore Luigi De Luca, «Carmelo Bene non è mai morto». E sì che manca ancora la parte più bella. Eccola qui, in una stanza-deposito accanto: 117 scatoloni sigillati consegnati dalla vedova e dalla figlia, pieni di materiale in attesa di essere archiviato e digitalizzato. Ora la notizia è che l’archivio Carmelo Bene ha ottenuto dal governo 400mila euro per catalogare il tesoro sepolto nelle casse e poi mettere tutto su una piattaforma digitale, open access. Disponibile a tutti, gratuitamente. Un numero per ora imprecisato di manoscritti e dattiloscritti («Tra cui almeno un inedito, forse di più: di certo qui dentro c’è il poema Achilleis-Leggenda», si dice sicuro il direttore dell’archivio) e poi cassette Vhs, foto di scena, film, registrazioni, dischi, locandine e poster, lettere, articoli di giornale, altri libri appuntati, agendine... La memoria cartacea di Carmelo Bene. Per il resto, eccoci qui a sfogliare la grande biblioteca Wunderkammer di un uomo di teatro, di visioni e di parole che ha lasciato detto: «Non si può essere autori di un’opera d’arte, bisogna diventare capolavori». Immaginavamo che la sua libreria potesse presentare sorprese. E infatti. Fra i suoi volumi, soprattutto di storia dell’arte, di teatro e di letteratura, molti annotati, spuntano nomi e titoli spiazzanti. Gli scaffali, anche solo a un veloce sguardo curioso, rivelano letture all’epoca non così accreditate, tenendo conto che la biblioteca – immaginiamo – sia stata costruita soprattutto fra gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Forse perché abbiamo l’occhio allenato su certi dorsi, ma fra le fonti che hanno formato lo scrittore-regista, fra i testi e le filosofie che hanno costruito il suo immaginario, subito scorgiamo il grosso volume antologico con La Voce di Giuseppe Prezzolini nell’edizione Rusconi del 1974. Poi Il Papa di Joseph De Maistre, un Classico Rizzoli del 1984 con la custodia in cartoncino. Ci sono i saggi di Juan Donoso Cortés. C’è l’opera omnia di Benito Mussolini (da notare che l’edizione è quella di Ciarrapico, dunque recente: impossibile pensare a una eredità, molto più probabile l’abbia comprata lui). Ci sono testi di Giovanni Gentile. Di Friedrich Nietzsche e di Max Stirner. C’è la triade italiana Pascoli-d’Annunzio-Pirandello con tutti i testi nell’edizione Ricciardi. C’è la triade modernista Joyce-Eliot-Pound (e tanto Borges). C’è il poeta Friedrich Hölderlin. Ci sono moltissimi testi di religione, dalla Storia dei Papi di Ludwig von Pastor (edizione completa) alle opere del «dottore mistico» Juan de la Cruz, da quelle di Maddalena de’ Pazzi a Santa Teresa d’Avila fino alla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze. E c’è la raccolta di saggi L’ortodossia di G.K. Chesterton. Quanto di più eterodosso ci possa essere per certa ortodossia del pensiero. Ma trattandosi di Carmelo Bene tutto, ovviamente, torna.