il Giornale, 27 maggio 2023
Majakovskij, poeta di sangue e di amore
I l cuore di Vladimir Majakovskij (1893 – 1930), il poeta rivoluzionario, è la reliquia della poesia del Novecento. È un cuore immenso, più grande del Cremlino, più vasto dell’Himalaya. Non sanguina batte ancora. Metà aprile del 1930: il poeta più possente del secolo si spara al cuore un cuore di vetro in un corpo leonino, si dirà. «Niente pettegolezzi», implorò germogliarono maldicenze. Alcuni imputarono il suicidio a faccende politiche. Il cadavere non sopportava i ruffiani, i cannibali burocrati, l’epopea rivoluzionaria ridotta a servilismo, familismo, spartizione tra spargitori di sangue. Si sentiva braccato. La sua ombra intimoriva. Lenin cerò di osteggiarne il carisma dando un freno alla pubblicazione dei suoi libri, controllando le tirature attraverso la Gosizdat, la casa editrice di Stato, l’unica. Nel 1919 impedì che il suo Collettivo comunista-futurista (il Komfut) si costituisse in partito politico. Alcuni credevano che Majakovskij si fosse ucciso a causa dell’ultima, giovanissima amante, Veronika Polonskaja; altri che la colpa fosse di Lilja Brik, specie di Lilit, maritata, sorella di Elsa Triolet futura moglie di Louise Aragon, storica compagna di Vladimir. Già. Majakovskij sapeva amare, amava terribilmente e il suo cuore possedeva molte stanze, migliaia, e molteplici bivacchi. «Nel caricatore c’era una sola pallottola. Non ci fu un amico abbastanza premuroso da togliere quella pallottola, da andare a trovare il poeta, da telefonargli», scrive, con candido cinismo, Viktor klovskij, ennesimo genio di quella geniale generazione. klovskij non sopportava Lilja Brik: «Sapeva essere malinconica, femminile, capricciosa, fiera, superficiale, incostante, innamorata». «Il mio amore/ è un carico grave/ che addosso ti incombe/ ovunque tu scappi», scriveva Majakovskij alla sua «Lilicka!». Amava come si sbocconcella una preda si scoprì predato. Majakovskij fu così abbagliante spartiacque nella storia russa, l’artigliata di un dio indecente da diventare un genere letterario a sé. Di lui scrissero Anna Achmatova («Solo e spesso scontento,/ Con impazienza affrettavi il destino») e Marina Cvetaeva («arcangelo dal passo pesante/ salve, nei secoli, Vladimir!»); nella poesia In morte di Majakovskij Boris Pasternak riassume così i fatti: «Il tuo sparo fu simile a un Etna/ in un pianoro di codardi». Nelle pagine finali del Salvacondotto che forse è la sua opera in prosa più bella, brulicante di invenzioni Pasternak fissa il suicida Majakovskij nelle pupille. È un requiem meraviglioso, riferisce il viavai di gente poeti e sconosciuti, biscazzieri e lacchè intorno al cadavere, quasi si trattasse di un capo di stato, o, meglio, di un santo. «Giaceva sul fianco, il viso rivolto alla parete, accigliato, grande, nascosto fino al mento dal lenzuolo, con la bocca socchiusa, come nel sonno. Voltando fiero le spalle a tutti, anche così disteso, anche in quel sonno, sembrava slanciarsi caparbiamente chissà dove. Il suo volto mi riconduceva ai tempi in cui si era detto e ventiduenne... era un’espressione con cui si dà inizio e non si mette fine alla vita». Tutti, di Majakovskij, hanno detto l’intemperante giovinezza realizzata, si direbbe, con la morte. Come se la morte non fosse un giaciglio ma un germoglio. Eppure, dalla morte di Majakovskij sortì il grande frainteso. Il suo cuore la reliquia fu dimenticato (ma come fai a sbarazzarti dell’Himalaya?); cominciarono a spezzettarne l’opera, per fini bassi, da predoni, politici più che poetici. Fu ancora Pasternak, come sempre, ad accorgersi di tutto. «Majakovskij cominciarono a introdurlo a forza, come le patate al tempo di Caterina. Questa fu la sua seconda morte». Del poeta perpetuamente innamorato, «del giovane cospiratore terrorista», fecero un poeta «impegnato», fedele ai diktat; obbediente, insomma. Al contrario questo è klovskij «Il cammino di Majakovskij è tappezzato da migliaia di gocce di sangue... Aveva scritto molto dell’amore. Cercava l’amore. Voleva sanare la ferita con i fiori». Così, le Poesie d’amore di Majakovskij raccolte e tradotte da Paola Ferretti per Einaudi (pagg. XL+170, euro 14,50) non sono soltanto un risarcimento lirico, ma una sorta di lascito, un vagabondaggio nel cuore-memoriale del poeta, nelle sue labirintiche palazzine. Majakovskij ghigna, bandito dongiovannesco («Le ragazze/ adorano i poeti./ Io sono intelligente/ e forte è la mia voce,/ so mettere nel sacco / se solo/ mi si sta a sentire»), ha il solito piglio vorace, anarchico, sfrenato («A ogni piè sospinto/ abbiamo attaccato/ la lirica/ aspramente/ in cerca di un linguaggio/ nitido/ e nudo./ Ma la poesia/ è un marchingegno stramirabolante/ esiste e basta/ non ci puoi fare un bel niente./ Questo,/ per esempio / è da dire o da belare?»), non privo di lapidarie tenerezze, come in questa poesia, scritta poco prima di uccidersi: «M’ama? Non m’ama? Le mani tormento/ e poi lascio andare le dita». Dicono che negli ultimi mesi il poeta girasse con una saponetta nel cappotto. Era altissimo, onnivoro, onnisciente, qualcosa tra il campione di boxe, il cosacco e il capo indiano. Si girava la saponetta tra le mani, certo di aver commesso qualcosa di sporco: «Spettabili/ compagni discendenti!/ Frugando/ nell’odierna/ merda impietrita,/ studiando le tenebre dei nostri giorni,/ voi/ forse/ chiederete anche di me». Come tutti i poeti in amore, Majakovskij era ossessionato dalla morte. A Roman Jakobson, con estatica insistenza, chiese di essere presentato ad Albert Einstein: «Io sono assolutamente convinto che la morte non ci sarà. I morti saranno resuscitati», gridava; «l’imperativo di una vittoria sulla morte lo possedeva», chiosa Jakobson. Si uccise, forse, per eccesso di futuro che è poi ammanco d’amore. «La sua opera e la stessa sua vita, rapida, scattante, senza requie, con la premura di far bilanci e celebrare giubilei, è tutta una fuga verso l’eternità», ha scritto Angelo Maria Ripellino, esegeta máximo majakovskijano. Nel suo diario, Vasilij Kaménskij ricorda Majakovskij che fa visita al circo Nikitin, attraccato a Mosca. «Majakovskij desiderava recitare i suoi versi in groppa a un elefante». Che immagine meravigliosa. Majakovskij urla versi d’amore cavalcando un elefante. Era il 1914. L’anno dopo il poeta avrebbe conosciuto Lilja, la donna della sua vita e della sua morte. klovskij scrive che il cadavere indossava «una camicia celeste». Che siano i lettori, ora, a divorare il cuore di Majakovskij. Non sanguina batte ancora.