la Repubblica, 26 maggio 2023
Intervista a Gabriele Muccino
Esploratore dei sentimenti, formidabile osservatore, Gabriele Muccino indaga sulla famiglia, la analizza, la fotografa nella sua ipocrisia “a fin di bene”, la mostra nella sua crudeltà. «Non ho mai creduto alle famiglie felici, anche quelle perfette nascondono crepe» dice il regista romano, 56 anni, che inA casa tutti bene 2,stasera il finale di stagione su Sky e Now, la serie ispirata al suo film, spiega bene che non c’è salvezza. Di padre e di madre in figlio, i segreti minano i rapporti, la felicità resta una chimera. Un successo: 650 mila spettatori medi con oltre 1 milione di contatti unici per il primo episodio a oggi, e un indice di permanenza che, sottolineano a Sky, per il venerdì viaggia al 60% con picchi del 67%.
In che modo, raccontando la famiglia, racconta l’Italia?
«La famiglia sarà sempre lo specchio della società: è li che nasciamo, ed è il villaggio che ci lasciamo alle spalle per costruire un nuovo nucleo. In un film come L’ultimo bacio ,girato prima dell’11 settembre, i personaggi sono “vitelloniani”, c’era la via fuga e l’orizzonte era infinito.Ricordati di me ,del 2003, arriva dopo la paura, è infinitamente più pessimista: la famiglia è distrutta, tutto si regge sull’apparire. Anticipava quello che i social avrebbero portato fuori come un verminaio».
Cosa?
«Una forma di narcisismo collettivo: fanno sentire superiori persone che devono fingere di essere quello che non sono. La presa di coscienza di questa inferiorità è foriera di infelicità, specie negli adolescenti.
Hanno perso il contatto fisico e verbale. Tutti con lo smartphone, corteggiano o lasciano una persona, aggrappati alla doppia spunta.
Aggiungiamo una cosa che nessuno, a parte mia nonna con la Spagnola, ha vissuto: la paura di un virus che può uccidere, il lockdown. La guerra.
Abbiamo creato esseri umani impreparati al mondo».
Nella serie “famiglia” non è mai sinonimo di felicità: una visione pessimistica o realista?
«Nei personaggi delle mie famiglie non c’è una visione pessimista. Sono tutti, inconsciamente o compulsivamente, ottimisti. Questo è il problema. Non vivono il presente, non riflettono, ma procedono con incedere impetuoso, impulsivo.
Questo crea micro traumi che diventano fratture in quel domani che pensavano fosse luminoso.
Invece è solo miserabile».
Per salvarsi bisogna scappare?
«Tutto nasce dai genitori, dal trasferimento dei difetti di fabbrica.
Le ombre che ci portiamo dietro restano incollate da quando siamo bambini. Essere genitori è difficilissimo, sono imperfetti. Tra i figli si salva solo chi ha una natura più forte, chi ha lo sguardo più alto, come se fosse su una torretta. Da piccoli stando in un bosco, e cercando tra gli alberi, non vediamo la via d’uscita. E in questa condizione prendiamodirezioni sbagliate».
Troppo amore e la mancanza d’amore fanno danni nello stesso modo?
«Il poco amore crea una mancanza di fiducia in sé stessi e si cercheranno conferme in persone che ricorderanno chi ci ha fatto più male, coazione a ripetere. Nel troppo amore pensi che sei nato per vincere e la vita ti ricorderà con forza che sei impreparato, proprio perché sei stato troppo protetto da quell’amore così possessivo. Ti hanno messo addosso un’armatura e invece rimani nudo.
Sei più fragile rispetto a chi ha costruito la propria corazza».
La sua famiglia è stata fonte di ispirazione?
«Per la serie no. La cosa più autobiografica è il filmA casa tutti bene ,in cui mi sono ispirato a qualche parente. Dopo gli anni americani, lo stimolo creativo — osservare la famiglia — è stato il modo di raccontare gli italiani, un campionario di varia umanità».
Come si evitano gli errori? Cosa spiega ai suoi figli?
«Non sono un sociologo e neanche uno psicanalista. Sono una persona ordinaria: ho letto libri, visto film, vissuto tante vite — non una, venti — la mia, e le altre, quella dei personaggi amati al cinema. Sono giunto alla conclusione che non esistono le famiglie felici. Ai miei figli do qualche coordinata per vivere meglio. Non so come ci si possa salvare. Certo se mio padre mi avesse detto: “Evita le donne che hanno avuto problemi con il padre”, sarebbe stato meglio».
I matrimoni dei nonni duravano una vita: più amore, più senso del dovere, maggiore ipocrisia?
«Grandissima ipocrisia. Si dava per scontato che ci fosse una seconda famiglia; se c’era l’amante, la moglie chiudeva un occhio. Gli uomini mandavano i figli a perdere la verginità nei bordelli. Erano famiglie disfunzionali: i padri erano anaffettivi rispetto a quelli di oggi, c’era una visione dei ruoli schematica. Il divorzio è arrivato negli anni 70, l’ipocrisia era necessaria per andare avanti».
Oggi ci sono tanti tipi di famiglie.
Quelle formate da coppie omosessuali ancora combattono per i diritti: cosa ne pensa?
«Quella per i diritti è la vera battaglia.
L’uomo è talmente smemorato e recidivo che quando raggiunge traguardi importanti si dimentica della sofferenza e ingrana la marcia indietro. Questo mi angoscia e mi suscita un pessimismo tossico nei confronti della politica. Non sono ottimista nei confronti dell’umanità».
Nessuna speranza?
«Le donne sono più solide, hanno più strumenti rispetto agli uomini che annaspano. Nella serie Sandro (Valerio Aprea), malato di Alzheimer, ha dimenticato tutto, anche i traumi, e forse è il più vicino a Dio. È senza filtri, dice le cose con trasparenza come i bambini. Non conoscono il disincanto: crea la ferita che ci rende cinici».