la Repubblica, 26 maggio 2023
Il secolo lungo di Henry Kissinger
Henry, la storia ricorderà il presidente Nixon più per le dimissioni dopo lo scandalo Watergate del 1974, o per l’apertura alla Cina di Mao, varata con te due anni prima?». Alla domanda dell’avvocato Gianni Agnelli, in volo verso le Conferenze Bildeberg, Henry Kissinger, Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato, 1969-1977, per i presidenti Nixon e Ford, rispose socchiudendo gli occhi miopi, «Watergate? Nota a piè di pagina. Summit a Pechino? Intero capitolo nella Storia».
La battuta contiene, in un lampo, la filosofia politica di Henry Kissinger, nato Heinz Alfred Kissinger cento anni or sono, 27 maggio del 1923, a Fürth, Baviera, caotica Germania della Repubblica di Weimar che finirà nelle mani di Hitler nel 1933. Considerato dai fautori «il Cardinal Richelieu, diplomatico principe del XX secolo» e dagli avversari «un criminale di guerra», Kissinger festeggia il centesimo compleanno in salute, augurandosi, sull’ Economist , che l’Ucraina entri nella Nato, solo perché, paradosso tipico, «Putin trarrebbe vantaggi… dall’equilibrio strategico».
La bilancia tra i poteri come ossessione, pagare “qualsiasi prezzo” per non ribaltarla, la certezza, appresa da Machiavelli, che «per difendere i principi devi restar vivo, se no a che vale?», così Henry-Heinz divide statisti, diplomatici, media, intellettuali da decenni. Con le monumentali memorie dalla Casa Bianca (Sugarco), saggi celebrati, da Diplomacy a Cina (Sperling e Mondadori), migliaia di pagine della biografia autorizzata cui lavora lo storico Niall Ferguson, testi firmati da ammiratori fidati, Barry Gewen, giornalisti distaccati, Walter Isaacson, detrattori accaniti, Seymour Hersch e Christopher Hitchens che lo accusano per le stragi in Vietnam, Cambogia, Laos, Pakistan, Indonesia e per il golpe contro il presidente Allende in Cile, un muro di trionfi e tragedie nasconde il mistero Kissinger.
L’ex Segretario di Stato passa per “Decano del realismo in politica estera”, gli “interessi nazionali” come GPS, sempre, eppure, rileggendone la tesi di laurea ad Harvard, ateneo dove arriva nel dopoguerra con le borse di studio per i reduci, titolo ambizioso Il significato della Storia ,il cliché dei geopolitici alla buona, vacilla. «I regni della libertà e della necessità non possono essere conciliati, se non da una esperienza interiore» annota Kissinger con giudizio che rimanda ai filosofi esistenzialisti Sartre e Camus, non al “realismo” di Richelieu, Metternich, Bismarck, anticipando il dilemma intellettuale posto da Ferguson. Freddo leader, capace di bombardare in segreto la Cambogia violando le leggi Usa, con 100.000 morti, colpire il Vietnam a Natale nel 1972, chiedersi «Perché dovremmo metterci a rischio in America Latina, solo per l’irresponsabilità degli elettori cileni? », fornire armi, illegalmente, al dittatore pakistano Yahya Khan per il genocidio del 1971 in East Pakistan?No, Ferguson ritrae un uomo tormentato dal destino, infanzia sotto Hitler, picchiato con il fratello minore Walter dai nazisti a scuola, perché ebrei. Tifoso dello SpVgg Fürth, Heinz Kissinger entra di soppiatto allo stadio, i bulli con la svastica lo bastonano, testardo e coraggioso torna, venendo premiato, dopo la guerra, con un abbonamento a vita. Vedere la democrazia di Weimar dissolversi nelle faide socialcomuniste, Herr Hitler al potere grazie al voto popolare, l’esilio con la famiglia nel 1938, lavorare a New York, operaio in una fabbrica di pennelli da barba, apprendere di zii e cugini sterminati nei lager, instilla in Kissinger, a Manhattan chiamato Henry, una morale radicale, «non si sceglie tra bene e male, ma tra male sopportabile e tragedia epocale». Arruolato nell’esercito, viene formato da Fritz Kraemer, esule tedesco che porta il monocolo e gli insegna Nietzsche. In Germania, soldato semplice, partecipa alla liberazione del lager di Ahlem con il Counter Intelligence Corps, identifica una cellula clandestina Gestapo, amministra Krefeld ed Hesse. «Non permise vendette private — racconta un ufficiale — ma la leggenda di Kissinger Don Giovanni, che negli anni ’70 animerà le riviste di gossip, nasce allora. Seduceva con intelligenza». «Una società capitalista, o quel che più conta per me una democrazia, è esperimento sociale più rivoluzionario del socialismo dell’Ottocento, dobbiamo lanciare un’offensiva spirituale » annuncia Kissinger all’anchorman Mike Wallace nel 1958, e fonda ad Harvard la rivistaConfluence , collaboratori Hannah Arendt, Raymond Aron, Arthur Schlesinger, Reynold Niebuhr, pensatori conservatori e liberal, e un seminario internazionale di studio. Dall’Italia arriva, ragazzo, lo scrittore Alberto Arbasino, che ricorderà «Nel club di Henry si resta a vita. Passa da Roma? Ti chiama. Vede un premier? Ti porta con lui».
Harvard non gli offre però la cattedra, finché l’aristocratico McGeorge Bundy persuade la Ford Foundation a finanziarla e il presidente Kennedy a far debuttare Kissinger a Washington. La sua stella non declinerà più, per un secolo.
Quando il repubblicano Richard Nixon arriva al potere, nel 1968, Kissinger è Consigliere per la Sicurezza, ma al suo tavolo del ristorante Four Seasons di Manhattan,commensale classico Enzo Viscusi di Eni Usa, giurerà: «Anche il democratico Humphrey mi avrebbe chiamato! ».
Finirà nel gorgo Watergate, con Nixon a implorare «Henry, tu non sei ebreo ortodosso, io non sono quacchero ortodosso, non ci resta che inginocchiarci e pregare » e i due leader implorano insieme l’Eterno dell’Antico Testamento. In mezzo le trattative di tregua con il Nord Vietnam a Parigi 1973, con il generale Le Duc Tho e la ministra Nguyen Thi Binh, un Nobel per la pace controverso, la guerra dello Yom Kippur in Medio Oriente, il sanguinoso golpe di Pinochet, le stragi del Sud Est asiatico fino a Pol Pot in Cambogia, le missioni da Mao, la Cina che si apre salvando dalla fame generazioni di contadini, la distensione nucleare con l’Urss. Fino all’intervista con Oriana Fallaci, in cui Kissinger si racconta cowboy solitario, cappello al vento che, a cavallo, guida l’America. Infuriato Nixon vuole licenziarlo, Kissinger, spaventato, prova a smentire, Fallaci tiene duro. Non si rappacificheranno ma, nel 2006, dopo la morte di Oriana, Kissinger, in un’intervista al Tg1, la celebra con nostalgia. Nessun ravvedimento invece su Aldo Moro, che Kissinger minacciò il 25 settembre 1974 perché fermasse ogni politica di unità nazionale con il Pci, sconvolgendo lo statista italiano poi vittima delle Br, che addusse un malore interrompendo il viaggio negli Usa.
Il successo dell’agenzia di consulenze Kissinger Associates, i flirt a Hollywood, il secondo matrimonio, il ruolo di eminenza grigia, le battute «per capire la politica estera devi capire il catenaccio, stile italiano nel calcio» faranno di Kissinger icona popolare. Il presidente Biden, che debuttando al Senato 1973 gli intimò «Lei vuol imporre la dottrina americana ovunque!» lo ascolta attento quando gli predica di non rompere con la Cina, cercando stabilità e pace, magari senza giustizia, come al Congresso di Vienna 1815.
I tempi però mutano. L’odio contro gli Usa, seminato per generazioni nel Sud Globale, Asia, Africa, America, rende ogni iniziativa diplomatica, Ucraina o Taiwan, ardua, parlare ai leader, come con Nixon, Mao e Breznev, non basta, i social media fan impazzire l’equilibrio in un click. Nel 1957 Kissinger scandalizzò il presidente Eisenhower con il saggio Nuclear Weapons and Foreign Policy, propugnando l’uso di bombe atomiche tattiche in crisi locali, tesi oggi adottata dal presidente russo Putin. Paradosso? Non per Henry Heinz Alfred Kissinger a 100 anni, consapevole che gli esiti delle nostre azioni restano in eterno misteriosi perché «Lo spirito trascende le impasse delle crisi storiche, solo riuscendo a contemplare l’abisso non con il distacco dello studioso, ma come sfida suprema da superare, anche a costo di perire… Gli uomini assurgono a mito, non per quel che sanno, e neppure per quello che hanno ottenuto in vita, ma per le mete che hanno saputo assegnarsi».