La Stampa, 25 maggio 2023
Quale femminismo ha vinto
Il grande storico Eric Hobsbawm ha scritto – ormai parecchi anni fa – che l’unica rivoluzione vittoriosa del Novecento è stata quella delle donne, e la grande trasformazione che ha coinvolto le donne nel mondo occidentale conferma senza dubbio questa affermazione. Oggi le donne hanno raggiunto la parità con gli uomini in tutti i campi della vita sociale, hanno ottenuto il libero controllo sul loro corpo, hanno cambiato le leggi e il modo di considerare la violenza sessuale. Su questo non ci sono dubbi. Ma rimane aperta una domanda: quale è il femminismo che si è affermato, quale progetto politico di liberazione della donna ha vinto?Le prime femministe, quelle che chiedevano il voto e l’accesso all’istruzione, difendevano la specificità femminile, cioè la maternità. Sostenevano che le donne mai avrebbero rinunciato al dono prezioso di essere madri, e che proprio questo le rendeva portatrici e testimoni di una morale più alta di quella maschile, una morale altruista, che predicava il dono gratuito, la pace e la cura dei deboli.Parallelamente, si è fatta avanti però un’altra linea politica femminista: quella delle donne che pensavano che ottenere la parità significasse diventare come gli uomini, e quindi rinnegare, o per lo meno mettere in secondo piano, lo specifico femminile, cioè la maternità. Questa è la corrente che ha preso il sopravvento nel secondo dopoguerra, quando, dopo avere ottenuto il voto, l’accesso alla cultura e alle professioni maschili come la medicina e l’avvocatura, le donne hanno spostato i loro obiettivi di lotta sulla libertà sessuale, a cominciare dalla libertà di non avere figli. In sostanza, liberarsi del fardello della maternità che impediva loro di essere come gli uomini.La loro lotta è stata profondamente influenzata dalla rivoluzione sessuale, in atto fin dagli anni Trenta, che prometteva una società felice se si fosse riusciti ad abolire le leggi che ostacolavano – soprattutto alle donne – la libertà sessuale. Per questo l’obiettivo primario delle lotte degli anni Settanta in Europa è stato il diritto di aborto. Cioè non la depenalizzazione delle leggi che punivano le donne, e solo le donne, in caso di interruzione volontaria di gravidanza, ma la vera e propria rivendicazione dell’aborto – che cambia nome diventando IVG (interruzione volontaria di gravidanza)- come di un diritto. Un diritto che nei movimenti femministi prende rapidamente il primo posto fra tutti i diritti, viene considerato cioè “l’Habeas corpus” della libertà femminile. Tanto che le Nazioni unite considerano la libertà di aborto l’indicatore principale del grado di libertà delle donne in ciascun paese, a scapito di altri indicatori più importanti come l’accesso alla cultura, al lavoro. Arrivando così a considerare positivamente paesi come la Cina – dove l’aborto è obbligato dallo Stato – o l’Iran, dove viene considerato obbligatorio a fasi alterne.Sarebbe stato certo più opportuno considerare diritto fondativo della parità femminile la legge contro lo stupro, che riconosce il diritto alla vittima di ottenere giustizia come persona. Grazie ai movimenti femministi, infatti, lo stupro – prima considerato in tutti i paesi come una trasgressione alla morale pubblica – è diventato delitto contro la persona, riconoscendo così la libertà di ognuno di disporre del proprio corpo, di rifiutare un rapporto sessuale imposto. Questo cambiamento legislativo ha ridato la parola e la dignità alle vittime, ed è servito a cambiare la mentalità corrente.Considerare l’aborto il principale diritto che testimonia la libertà delle donne, invece, non mi sembra sia stata una buona idea: subito dopo i movimenti femministi hanno iniziato una fase di declino, solo in parte attribuibile al fatto di avere raggiunto quasi in ogni Paese gli obiettivi che si erano proposti. Questo “quasi” del resto è molto pesante. Lo dimostra il fatto che ancora esiste un divario fra salario femminile e salario maschile a parità di posizione lavorativa, e soprattutto che sia molto difficile, per le lavoratrici, avere dei figli senza cadere in una spirale di fatica continua. Il drammatico calo delle nascite che, più o meno, tocca tutti i Paesi occidentali avanzati, cioè quelli in cui si è affermata la rivoluzione delle donne, dimostra che la scelta di perseguire il modello maschile, invece di difendere la specificità femminile, in particolare la maternità, ha generato forti problemi sociali. E certo non ha reso più felici le donne che, in grande numero, hanno dovuto rimandare la possibilità di avere dei figli così tanto che troppo spesso l’hanno perduta del tutto.Oggi le giovani donne possono fare gli stessi studi dei maschi, avere le stesse opportunità professionali, ma non possono superare il limite naturale alla loro fertilità, che diminuisce o scompare con il passare degli anni, per cui si trovano spesso costrette a rinunciare alla maternità. Bisogna ricordare, infatti, che la procreazione assistita, che richiede un bombardamento ormonale dannoso sia per l’aspirante madre che per l’eventuale figlio, ha successo solo per il 30 per cento, e sempre meno con il passare degli anni.Questo tentativo delle donne di diventare “un uomo come gli altri” si è esteso successivamente alla cancellazione dell’identità sessuale. Nell’ultima fase femminista, infatti, si è cercato di rendere più evidente e sicura la parità proponendo una cancellazione dell’identità sessuale biologica. Con la teoria del gender, l’appartenenza biologica è stata sostituita da una semplice scelta individuale. In sostanza, in questo modo si cancella che esista la specificità femminile, come se per le donne fosse possibile ottenere la parità di diritti solo negando di essere donne.Legata a questa svalutazione della maternità è la diffusione della pratica dell’utero in affitto, sanzionata da alcuni movimenti femministi che la denunciano come una nuova schiavitù del corpo femminile, ma considerata un esercizio di libertà da altri. Mentre la nuova libertà concessa ai giovani, anche adolescenti, di cambiare identità sessuale, per diventare quello che sentono di essere o che preferiscono essere, sta registrando in prevalenza passaggi dall’identità femminile a quella maschile. Un segnale, quindi, che le giovani continuano a pensare che sia meglio essere uomini che donne. Una prova ulteriore che i movimenti femministi, da quando hanno dimenticato la difesa della specificità femminile, hanno impedito una trasformazione sociale veramente a misura delle donne. Abbiamo ancora molte battaglie da combattere e la teoria del gender non è una soluzione.