MowMag, 25 maggio 2023
Intervista a Enrico Del Buono. Parla di Protatata, fiction, letteratura, senso di colpa, sesso e tante altre cose
Premessa numero uno: Enrico Dal Buono è un mio amico da tempo, gli voglio bene. Premessa numero due: Enrico Dal Buono è uno scrittore come ce ne sono pochi, nel senso che nella sua vita questo fa, lo scrittore, non è che ha un altro lavoro e poi fa anche lo scrittore, come un po’ tutti intendo. Premessa numero tre: il primo libro che ha scritto si intitolava La vita nana e l’ho trovato bellissimo, poi ce ne sono stati altri ma l’ultimo invece si chiama Ali (La Nave di Teseo), è uscito qualche mese fa e non mi è piaciuto per niente. Per questo c’ho messo molto tempo prima di intervistarlo, perché – in virtù della premessa numero uno – non sapevo come dirglielo. Ma si sa, gli amici ti dicono sempre la verità, o prima o dopo, e durante una festa l’ho puntato da lontano, lui era lì con un drink in mano, alto e bello come potrebbe essere bello l’amante di Versace o Valentino, un’eleganza e un’aristocrazia naturali, una leggerezza da artista francese contemporaneo di Rimbaud, biondo, anzi: ariano, delicato e con quel sorriso da figlio di puttana. Mi sono avvicinato. E ho trovato il coraggio. Quella che segue è una chiacchierata durata un’ora e venti minuti dove dentro ci sono concetti altissimi e bassezze assolute, e parliamo di letteratura, di nobiltà d’animo. E di prostata.
Cosa stai bevendo?
«Gin Tonic, ho chiesto la cosa più semplice che c’era e anche quella più semplice era piena di intrugli. Ho vissuto due mesi d’inferno perché mi è venuta la prostatite».
Io ho avuto la prostata ingrossata.
«Cazzo, a me si è allargata anche al marone. Avevo un marone grande come un melone».
Qual è la causa?
«Ho dei calcoli dentro la prostata, che derivano da episodi passati, che me la fanno infiammare con grande facilità. Mi sono massacrato di antibiotici e così mi è venuta la gastroenterite. È stata una catena terribile, allora adesso cerco di dosare abbastanza».
Tra l’altro anche il Gin Tonic non è proprio adatto.
«Lo so, ma non bevevo super alcolici da mesi».
Anche l’alimentazione stai cambiando?
«Sì, diciamo che cerco di evitare i dolci, il fritto e il piccante. Sono molto goloso.
Questa cosa qua cambia anche il modo in cui vai in bagno? Pisci di più?
«Quando avevo la prostatite non facevo altro».
Che farmaci hai preso? Perché a me hanno dato un po’ di robe.
«Quello che me l’ha fatta passare è stato il ciproxin. Un antibiotico specifico per la prostata, doppia dose per 7-8 giorni. In più anche delle sfiziose supposte al cortisone. Io ero veramente infiammato, camminavo che sembravo che me la fossi spassata con una squadra di football americano. Camminavo veramente a gambe aperte».
Hai fatto l’uroflussometria?
«No, però vado da un urologo che mette il suo simpatico ditino nel sedere e sente. Mi dà molta sicurezza, si chiama Roberto Musci dell’Humanitas. Ha delle dita molto delicate».
Il fatto che per sentire la prostata ti devono mettere ancora il dito al culo dice tanto dell’umanità.
«I medici dovrebbero sempre metterti un dito nel culo, e adesso non ti toccano più. Ti curano come se tu fossi un ologramma. Invece hai una prostata, un ano ed è giusto sentire come funzionano. L’ultima volta che ho avuto la prostatite non me l’ha messo, e io mi sentivo un po’ offeso per questa cosa. Mi disse che ero piano di batteri, e che se me l’avesse messo sarebbero schizzati in tutto l’apparato urinario».
Ma tu sei mai andato a farti fare un massaggio prostatico? Una donna te l’ha mai fatto?
«Beh, si, sarà capitato in qualche modo».
Sarà o è capitato?
«Non mi ricordo più, sarà capitato».
È capitato, è capitato. Tutte le volte che è capitato a me, questo beneficio alla prostata non l’ho sentito.
«Neanch’io. Però c’è da dire che il perineo è una parte estremamente sensibile, che collega l’ano allo scroto. Per me quella lì è la parte vera. Poi con l’ano lo prendi alle spalle, quindi c’è anche un po’ di sorpresa nel perineo che dice “ma chi è questo?”. Una sorpresa eccitante».
Cambia il modo di scrivere con la prostatite?
«Cambia la posizione in cui scrivi perché scrivevo o tutto inclinato da una parte, o seduto ma senza sedia alla Fantozzi, o con una pila di cuscini».
Come fai a scrivere seduto senza sedia?
«Alla Fantozzi. Alleni anche i quadricipiti».
Devo confessarti una cosa. Ali non mi è piaciuto, è come se tu avessi tenuto una distanza tra te e il lettore. Avevo paura a dirtelo.
«Un libro, per di più così strano, è ovvio che non può piacere a tutti. Ma anche il più grande capolavoro del mondo non piace a tutti».
Ho percepito che tu stai schermando il tuo mondo.
«No, io non schermo il mio mondo. Ho la mia idea di poetica, che è l’opposto di quella che va per la maggiore, e cioè raccontare i cazzi tuoi, la scrittura ombelicale. Quella che spesso a torto viene definita un autofiction. Quella che io non sopporto».
Perché?
«La considero una totale mancanza di fantasia, un totale svilimento delle possibilità che la letteratura offre. Un totale conformismo rispetto al mercato, una totale confusione tra scrittura terapeutica e letteratura, un totale tentativo di trasformare le proprie sfortune in trappole che convincano il lettore a continuare a leggerti».
Come se fossimo vittime degli stratagemmi narrativi?
«È come guardare un profilo Instagram dove uno piange. È il trucco che muove la nostra società. L’autocompatimento. Io lo detesto, credo che sia la morte di qualsiasi creatività. Credo che un vero artista, un vero scrittore, debba creare altri mondi che non per forza devono avere le ali. Può essere anche un poliziesco o una storia d’amore. Ma credo che sia estremamente riduttivo e facile raccontare di sé stessi nei termini nei quali nella nostra contemporaneità si racconta di sé stessi. È per mediocri».
Mi piace molto questa visione, però, nonostante questo, ti dico che io ho percepito uno schermo. Non vuoi che la gente entri dentro di te.
«Tu lo chiami schermo e io la chiamo creazione. Nel libro c’è tutto ciò che sono veramente, è deformato da un mondo deforme».
Non deformare il mondo.
«A me piace fare così, i miei maestri fanno così».
Perché allora ne La vita nana ho percepito una verità che in Ali non ho percepito?
«Questo non te lo so dire. Ti posso dire però che nella finzione letteraria non c’è una riga che non sia vera. Nel senso che in ogni riga ho cercato di essere il più preciso possibile rispetto all’idea che avevo in testa. Questa è la forma di onestà che è consentita a uno scrittore. Essere onesti non vuol dire raccontare la verità, che non esiste e che non ha a che fare con la letteratura, perché la letteratura ha che fare con la verosimiglianza, la verità e l’onestà dello sforzo nel cercare di rendere nel modo più preciso, più altruista rispetto al lettore e non rispetto al proprio auto concepimento l’idea che hai in testa. Tutti i personaggi di Ali sono me, sono una parte di me. Probabilmente il personaggio nel quale ho messo più me stesso è la ragazza, Celeste».
Cioè?
«Tutta la sua storia di attacchi di panico per esempio sono i miei, ma anche la difficoltà di decidere di Eugenio, il suo essere fondamentalmente un debole. C’è la mia parte più debole lì dentro. In Falco Tremamondo questo spirito di una religiosità tradita, ma non per questo meno ambiziosa, la volontà folle e pericolosa di voler migliorare il mondo. Così come in Ivoslavich* c’è il tentativo paranoico di voler dare un senso, spesso assolutamente schizofrenico e deformato alla realtà. Tutti i personaggi sono estremamente veri come ispirazione, poi è assolutamente plausibile che un lettore li senta come non veri. Questo è qualcosa di legittimo e che fa parte delle regole del gioco».
La paternità dov’è?
«È in Eugenio, nel rapporto con i figli di Eugenio ci ho messo moltissimo delle mie sensazioni della mia neonata paternità. Anche pensando a Gaia, la moglie di Eugenio, il discorso che fanno in camera da letto nella quinta parte dove tanto tu non sarai mai arrivato. I ragionamenti che fa con Eugenio sui figli, su come metterli o non metterli al riparo dai pericoli della vita, sono tutto ciò che ho vissuto. C’è me stesso lì dentro in realtà, visto con le lenti del grottesco ma è quello che io faccio».
Perché non crei un mondo partendo da qualcosa che potrebbe essere realmente possibile? Intendo con un aggancio all’attualità.
«Questo libro parla dell’attualità».
È un aggancio molto alto.
«Serve la voglia di ragionare».
Mi stai confermando che c’è uno schermo.
«No, c’è un’idea di letteratura».
Eppure io ti conosco, so cosa pensi delle questioni di attualità di cui parla la gente e quanto il tuo pensiero potrebbe essere illuminante per molti. Invece taci. Perché tu non ti impegni a dire queste cose pubblicamente?
«Io lo dico con i miei libri, sennò avrei fatto un altro mestiere. Io sono un creatore di mondi».
Tu sei un intellettuale.
«A me fanno schifo gli intellettuali. Gli intellettuali sono quelli che dicono ai poveri stronzi come dovrebbero ragionare, e perché sono dei poveri stronzi. Io non lo voglio dire. Credo che esprimere la propria opinione sia estremamente volgare, è come andare in giro in perizoma. E gli intellettuali non sono che influencer di idee alla moda, i loro scritti per lo più sono selfie abbigliati con le ideologie che poi i loro follower indosseranno a loro volta per essere riconosciuti dai propri simili. L’unica materia che conosco è come si crea una storia».
Ma vaffanculo non è vero che conosci solo quella.
«Ho dei rudimenti su come funziona una storia. Su come affrontare i problemi del mondo non so niente».
Prima mi hai fatto una critica bellissima sulla società parlando dell’autofiction, perché questa roba non la scrivi? Criticando i libri di altri per esempio.
«Perché non mi piace entrare nel giro della critica. Sai qual è il problema? Se io inizio a fare delle recensioni sono fottuto. Perché sono estremamente timido ma estremamente onesto con me stesso, allora se leggo un libro di una persona che conosco e non mi piace sono fottuto. Perché in ogni caso mi sentirei terribilmente in colpa. Se dicessi che è bello ma è brutto mi sentirei in colpa perché sto mentendo, se dicessi che è brutto anche se è brutto mi sentirei in colpa per la persona che sto mettendo in difficoltà».
Questa è una tara educativa.
«Molto probabilmente sì».
Superala, che te ne frega.
«Che bisogno c’è di superarla se posso scrivere dei libri».
Tu sei un intellettuale, devi andare oltre queste cose.
«Se io superassi queste cose non scriverei più, io non voglio guarire».
Se tu le superassi scriveresti meglio, arriveresti di più.
«Ma io non voglio arrivare, già il termine mi fa cagare: non siamo a XFactor».
La potenza è qualcosa che ti arriva.
«Arriverà a chi deve arrivare. Alla mia età mi sono reso conto di una cosa, tu non puoi essere diverso da quello che sei».
Ma tu non devi essere diverso da quello che sei, ma quello che sei non può essere una cosa che non cambia mai.
«È cambiato moltissimo».
E devi continuare a cambiare.
«Tu non puoi fingere di vedere le cose in un modo diverso. Risulti finto, falso. A me piace creare degli universi alternativi».
Già questo è da illuminato.
«Di tutto il resto non me ne frega un cazzo».
Vaffanculo ma tu sei uno scrittore, e il mondo ha bisogno di te.
«Chi avrà letto tutto il libro con attenzione sono sicuro che non avrà potuto non capire che non si parla dell’attualità. Ma non viene ridotto all’attualità, non è un libro che parla di un tema».
Io non sto parlando del tuo libro, io sto parlando di Enrico Dal Buono, della sua figura sociale.
«Io sono costretto a mettere la mia faccia perché devo sopravvivere, altrimenti io non vorrei nemmeno essere sui social. Vorrei che parlassero solo i miei libri».
Allora scompari. Allora scompari dai social, è questo compromesso che tu fai a ribasso che non va bene. Dovresti essere radicale, è così tireresti fuori quella voce che io sento che hai ma che non mi arriva.
«Ho già scritto un altro libro comunque».
Qual è?
«È una favola nera. Parla di una storia d’amore in una città dove muoiono tutti, ovunque ti giri c’è qualcuno che muore».
Sento già subito una potenza diversa. Ma anche il senso di colpa. Perché lo metti ovunque?
«Perché sono fatto di catechismo. Magari non metterla questa cosa del libro, è ancora prematuro. Mi piace averlo il senso di colpa, e mi rende anche una persona migliore tutto sommato».
Migliore rispetto a cosa?
«Al male che posso fare agli altri».
Io non la vedo così.
«Il senso di colpa ci rende più civili. Senza il senso di colpa non c’è libertà, c’è soltanto la meccanica del sempre uguale. La religione cattolica è la cosa più geniale che ha concepito l’uomo».
Anche più respingente.
«Ma qual è la figura storica più importante dell’umanità?»
Cristo. Io posto il Vangelo tutte le mattine, perché è essenziale. Bisogna arrivare all’essenziale che è la verità. Non al senso di colpa.
«Io sono la verità, quello che sono. Io sono il mio senso di colpa».
No, non è vero. Tu vivi con un freno a mano, ma nonostante questo sei un gigante. Pensa senza un freno a mano che cosa potresti essere.
«Ti stai sbagliando in questo. È vero che io ho un forte senso di colpa nella mia vita, ma i libri sono il mio rifugio dove non ho sensi di colpa. Lì posso sfogarmi liberamente. Mi dispiace che tu non abbia sentito questo passaggio nel libro, ma te lo posso garantire».
Secondo me tu ti sei rinchiuso in una prigione con questa scusa che è la tua zona di comfort. Dovresti almeno darti una possibilità.
«Ci ragionerò sicuramente. Ma non credo che sia così. In un libro il senso di colpa è molto discutibile e trascurabile. Di certo i miei romanzi non sono politicamente corretti, edificanti, non cesellano e rimuovono ciò che può essere disturbante».
Come vorresti vivere?
«In un mondo ideale. Per sempre felice con le persone che amo. Quando scrivo mi sento realizzato, di essere nel posto dove devo essere. Costi quel che costi. Appunto per questo ti dico che se non fossi onesto con me stesso, se scrivessi in un modo diverso perché potrebbe avere più successo commerciale, perderei tutto il senso delle mie giornate».
Sono due cose diverse. Io non ti sto invitando a essere più commerciale, ma a provare attraverso una serie di autoanalisi a essere più potente.
«Cosa vuol dire potente?».
Più violento nella capacità di scrivere ciò che per te è la verità.
«Probabilmente è questione di gusti. Gli scrittori a cui io mi ispiro fanno così».
Tipo chi?
«Il mio immaginario grottesco e surreale sicuramente ha molto a che fare con una certa tradizione russa, che in modo non corretto potremmo chiamare realismo magico russo. Ma è una definizione che non esiste, giusto per intenderci. Da Gogol’ a Bulgakov, gente che ha distorto la realtà, che l’ha deformata, che non ha detto le cose esplicitamente ma ingigantito certe tendenze dell’essere umano».
Lo scarafaggio di Kafka.
«Anche, assolutamente. La Metamorfosi è un esempio».
Nella Metamorfosi io sono stato male. È quello che intendo per potenza, arrivare lì.
«Tu a che pagina sei arrivato del mio libro?».
Di Ali? Non mi ricordo.
«Tu hai letto tre pagine».
Sì più o meno.
«E alloraaaaaa.... Avrai letto venti pagine, ti conosco».
No di più, 56.
«Che cosa succede nell’ultima pagina che hai letto?»-
Non me lo ricordo.
«Se invece di Enrico Dal Buono ci fosse stato scritto il nome di un autore celebrato probabilmente saresti andato avanti più facile».
No, ma proprio no. Anzi avrei ceduto prima.
«Tu vuoi qualcosa che ti spieghi subito dove sei. Perché hai la capacità di concentrazione di un mollusco. È così. Invece c’è una sinfonia che devi riascoltare qualche volta. Il messaggio, per come lo intendo io lo potrai vedere alla fine, se c’è. Nel mio libro, per esempio, c’è una corrente di pensiero che vuole amputarmi le ali. Per quale motivo lo sai?».
No.
«E allora di che cazzo stiamo a parlare. Perché le ali sono un retaggio considerato ormai primitivo, sono incontrollabili ti portano un po’ dove cazzo vogliono loro. Sono considerate barbare, e c’è questa dimensione dove tutto resta segreto, è una zona franca dove le persone si amano, si ammazzano e si stuprano e così via. Quindi c’è una corrente di pensiero che è convinta che l’assoluzione migliore per l’umanità sia quella di amputarsi le ali. Togliersi il problema una volta per tutte. Ti faccio un solo esempio, uno dei protagonisti inaugura a Montecarlo il Gravity Resort, una clinica di super lusso dove a un prezzo molto consistente vengono amputate le ali. Non può andarci chi vuole, le prime amputazioni sono ai vip e influencer. La prima persona ad amputarsi le ali in diretta Instagram, Facebook è la più importante influencer italiana e del mondo. Da questa ci sarà una tendenza social che convincerà le persone a fare a botte per essere ammesse al Gravity resort. È ovvio che non è un messaggio diretto come potrebbe essere quello di un editoriale di opinione del domani, ma credo che la letteratura consista esattamente in questo, creare degli specchi della realtà. Sennò uno non scrive un romanzo, scrive due righe e dice come la pensa. Ma dato che non so nemmeno io come la penso, cerco di sentire delle cose e di incarnarle in dei personaggi e in delle situazioni. È questo il mio lavoro. Non scrivo editoriali».
Tu il giornalismo un po’ lo schifi.
«È uno dei grandi mali del mondo».
Perché?
«Perché riguarda tutto ciò che ho detto prima. Si parla per parlare, è chiacchiera. Nessuno sa niente. La gente parla, parla, scrive, scrive di cose di cui non sa un cazzo. E c’è bisogno di scriverla subito sennò la tendenza social va via».
Quanto odi le persone?
«Le odio e le amo un po’ come tutti. Diciamo che mi sforzo per amarle».
La gente dovrebbe leggere di più.
«Credo che leggere non ti renda affatto una persona migliore».
Cosa intendi per persona migliore?
«Più buona, giusta. Credo solo che sia un piacere della vita, e precluderselo è come astenersi dall’alcol, dal sesso, dal calcio o dalla carbonara».
L’ultima volta che hai trombato?
«Con tutti i miei problemi di prostatite settimane fa. La prostatite è un disastro, hai infiammato non solo l’apparato urinario ma anche quello riproduttivo. È molto fastidioso».
Hai mai bevuto il tuo sperma?
«No, non l’ho mai bevuto. Nell’epoca in cui avrei potuto fare cazzate del genere mantenevo un regime masturbatorio troppo serrato per poter ambire a bere qualcosa. Al massimo potevo piluccare».
Piluccare è bere.
«Venivano proprio due gocce perché era un continuo».
È tutto bellissimo. Perché non ci vediamo mai?
«Ma vai a cagare, non hai finito neanche la prima parte del mio libro. Ah, il personaggio paranoico si scrive Ivo Slavici. Cosa che sapresti se avessi letto più di 12 pagine».
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