la Repubblica, 25 maggio 2023
Alessandro Giuli: «Alla destra serve un Fazio conservatore»
Alessandro Giuli è presidente della fondazione Maxxi, il museo delle arti contemporanee di Roma. Giuli ha preso il posto di Giovanna Melandri, cambio simbolico di stagione, è uno degli intellettuali di destra più considerati e aRepubblicaspiega di non essere mai stato iscritto al partito del piagnisteo per l’egemonia della sinistra nella cultura: «Io la chiamo la gnagnera, quell’inossidabile lamentela che l’intellighenzia di destra dovrebbe finalmente superare. C’è un residuo di complesso di inferiorità, manca ancora un completo salto quantico, il passaggio da governati a governanti, da esclusi a classe dirigente capace di includere».
L’impressione è che la preoccupazione della destra di governo, più che includere, sia occupare ogni casella possibile.
«Può esserci la tentazione di conquistare posizioni occupando caselle, ma sarebbe sbagliata oltre che inutile. L’egemonia non si conquista con canoni da secondo dopoguerra, con intellettuali organici a un partito o al governo, su questo concordo pienamente con quello che Nicola Lagioia ha detto ieri aRepubblica ».
Lagioia dice che la vera svolta dell’intellettualità di destra sarebbe criticare il governo anziché accodarsi.
«Ha ragione e raccolgo il suo invito, la destra intellettuale si misura dalla capacità di ragionare con spirito libero e mente aperta».
Invece la situazione è surreale, tocca ascoltare personalità vicine al governo che strepitano: siamo discriminati.
«Non c’è dubbio che da un punto di vista quantitativo la nomenclatura che dirige le istituzioni culturali del Paese sia in gran parte di sinistra ma questo dipende dal fatto che non c’è stata una adeguata formazione a destra. Abbiamo avuto esempi di fulgidi intellettuali ma sono mancati i quadri, se vogliamo chiamarli così. Scrittori, sceneggiatori, autori tv».
Nella tv pubblica, in attesa dei nuovi autori, di fatto si accompagna alla porta Fabio Fazio.
«Fazio è uno dei professionisti più bravi, ha ideato e condotto un format tv molto schierato e molto ben sorretto da tutta una critica amichevole. Magari non ha dato voce e rappresentanza a temi e figure più collegate alla destra, ma questo conta fino a un certo punto, non vorrei che passasse il concetto “siccome non mi ha invitato, allora meglio che se ne vada”».
Se la destra culturale non ha uno spazio pop e di successo in tv sarà colpa sua, mica di Fazio, no?
«Ma certo, bisognerebbe raccogliere la sfida, lavorare perché arrivi in tv un Fazio liberal-conservatore. Ho già detto che procedere per esclusioni o sostituzioni è un errore. Faccio l’esempio virtuoso del ministro Gennaro Sangiuliano, che interloquisce con tutti e che per i 90 anni di Liliana Cavani ha organizzato un evento molto inclusivo.
Per il passato potrei fare il caso della Biennale del dissenso del 1977 organizzata da Carlo Ripa di Meana, un intellettuale vicino al Psi che si era insediato nel 1974 al vertice della Biennale sconfiggendo di un solo voto i candidati del Pci e che in tre anni di lavoro riuscì a organizzare una Biennale contro le dittature in Sudamerica facendosi seguire da Moravia e Pasolini».
Ha citato Pasolini. Il pantheon della destra ha bisogno di rinforzi dal campo avversario?
«Ma Pasolini è nostro, lo metta tra virgolette, almeno dalla poesia Saluto e augurio . E una lettura da destra di Gramsci l’aveva fatta Alain de Benoist più di trent’anni fa. Peròbisognerebbe smetterla di ragionare per pantheon. Ora che è venuto meno un racconto coerente della realtà da parte della sinistra ci si accorge che anche a destra non esiste più un pantheon di riferimento. Meglio così, deve prevalere la libertà di movimento culturale, l’allargamento di orizzonti.
Bisognerebbe per esempio recuperare il meglio della tradizione azionista. Prenda Guido Dorso e l’idea della costruzione di una élite di 100 uomini d’acciaio per la questione meridionale. Oggi servirebbero i 100 per la grande questione euro-africana».
A proposito di de Benoist, ha parlato al Salone di Torino senza intoppi, la ministra della Famiglia Eugenia Roccella non ha potuto presentare il suo libro. Che idea si è fatto?
«Semplice, scalmanati hanno mortificato il tentativo liberale del direttore del Salone di far parlare Roccella. E, insieme alla ministra, l’altra vittima è proprio l’ottimo Lagioia, il cui programma culturale è stato oscurato dalle chiacchiere su questo incidente».
La deputata di FdI Augusta Montaruli ha aggredito verbalmente Lagioia dicendo che festeggerà il suo addio.
«Si tratta della reazione a caldo di una donna di Torino affezionata alla propria città. Un fallo di reazione. Ma un eccesso verbale momentaneo non può e non deve diventare la persecuzione di un intellettuale libero e bravo come Lagioia, persecuzione che da destra non c’è stata. Per fortuna, aggiungo».
Non le piace il pantheon, ma c’è un modo per la destra di non finire sempre ai convegni su Prezzolini e Longanesi?
«Certo che c’è. Penso alla ricerca post futurista di Sergio Lombardo e dei suoi giovanissimi allievi eventualisti di Numero Cromatico. Penso a Paolo Portoghesi, uomo di cultura, importante architetto italiano collegato al socialismo tricolore craxiano, che ha attraversato il proprio secolo approfondendo molti temi legati all’identità italiana e al genio del luogo».
Passare dalla difesa dell’identità alle teorie sulla sostituzione etnica è un attimo.
Lo ha sentito Lollobrigida?
«Anche se la Treccani lo rende legittimo non userei il concetto di etnos, perché si può facilmente fraintendere e questo va evitato. E poi l’Italia nasce romana, gene misto, non conosce il mito greco dell’autoctonia».
Quanto pesa sui ritardi culturali della destra non aver chiuso una vera svolta sull’antifascismo?
«Nulla. C’è una destra che governa dentro il perimetro della Costituzione, che è la bussola della presidente del Consiglio».
“La” presidente?
«Mi viene di chiamarla così».
Però da Meloni non è mai arrivata un’adesione limpida e netta all’antifascismo.
«La logica del telegramma “sono antifascista, stop” mi sembra persino riduttiva. Ho scritto un libro in cui dicevo che non si può diventare antifascisti nottetempo, meglio dimostrarlo sul campo. Lei si accontenterebbe di una facile declamazione?» .
Non mi dispiacerebbe.
«Ma è già stato fatto, Meloni era dentro un partito che quel passaggio lo ha affrontato. Il giudizio sul fascismo è fermo e inequivocabile, una condanna senza condizioni e senza subordinate. Poi l’autobiografia della nazione ce la racconteranno gli storici, partendo sempre dai presupposti invalicabili: Costituzione del 1948 e ripudio di ogni forma di totalitarismo, per primo quello che abbiamo vissuto in Italia».