La Stampa, 25 maggio 2023
Intervista a Marco Tarchi
«Sono un indipendente, che giudica lo spartiacque tra destra e sinistra inadeguato a capire e affrontare i problemi della nostra epoca». Così sì definisce oggi Marco Tarchi, 70 anni, docente di Scienze politiche all’Università di Firenze, a lungo ideologo della nuova destra fino all’espulsione dal Msi nel 1981 per un articolo di satira.
C’è un fascista in fondo al cuore di tanti democratici come ha detto Recalcati a proposito del caso Roccella?
«Basterebbe dire che violenza e intolleranza abitano a qualunque latitudine ideologica».
E dell’uso continuo dei termini fascismo e antifascismo che ne pensa?
«Da decenni mi batto contro questa guerra tra ombre del passato. Sarebbe il caso di fare un passo avanti. Anche perché questa contrapposizione interessa sempre meno il pubblico».
Saviano invece parla di rischio autoritarismo, è esagerato o profetico?
«Esageratissimo, come si addice al personaggio, che suona sempre la stessa stucchevole musica».
L’egemonia culturale della sinistra è un’ossessione della politica dice il direttore del Salone del libro Lagioia, ha ragione?
«Ha torto. Ed è merito di una classe intellettuale formatasi dentro o attorno il Pci di averla costruita, mettendo in pratica la lezione di Gramsci. Naturalmente, perché l’egemonia sia efficace bisogna negarne l’esistenza. Sempre e comunque».
C’è una grande ricerca di intellettuali di destra in questo momento, ci sono?
«Chi li cerca? I giornali "indipendenti"? Gli organizzatori dei festival culturali? Le istituzioni accademiche? Direi proprio di no. Li cercano solo i conduttori di talk show di parte avversa, nella speranza di far fare loro una brutta figura. Comunque ce ne sono, ma pochi. E non tutti di alto livello».
Chi sono i suoi preferiti?
«Sinceramente, li leggo poco. E loro lo sanno. Non mi sento di giudicarli».
Ma non è una contraddizione chiedere spazio proprio ora che sono al potere?
«E perché? Non mi pare che ne abbiano avuto granché in passato. Se ne avranno ora, mostreranno quello che valgono».
Che consiglio darebbe al ministro Sangiuliano?
«Di riconoscere la qualità culturale, da qualunque parte provenga».
Veniamo alle nomine Rai, che ne pensa del nuovo direttore generale Giampaolo Rossi?
«Non lo conosco».
Poche donna tra i nominati, strano con una premier?
«Almeno si evita un uso strumentale delle quote rose. Che è un’altra forma di discriminazione».
Secondo lei che Rai ci vorrebbe?
«Meno lottizzata, ma è un sogno irrealizzabile».
Lei potrebbe andare al posto di Augias?
«A me piace insegnare, scrivere articoli e libri. Non mi attrae l’istrionismo televisivo. Mi basterebbe che, un giorno, un editore importante fosse disposto a pubblicare qualche mia riflessione non solo strettamente politologica. Al momento, sono fra gli infrequentabili».
Lei teneva contatti col filosofo De Benoist tanti anni fa, oggi che ne pensa?
«Ho iniziato nel 1973 e non ho mai smesso. Lo stimo come intellettuale e come persona. Mi rattrista leggere falsità sul suo conto e articoli che lo dipingono in modo diverso da come è. Ha intrapreso un percorso coraggioso di superamento dello steccato tra destra e sinistra e prodotto analisi penetranti. Ed è stimato da molti intellettuali considerati di sinistra: da Michel Onfray a Massimo Cacciari. Si insiste ad attaccargli addosso etichette che non merita, mentre bisognerebbe leggere quel che scrive».
Come può Fdi far coesistere a livello europeo il sovranismo col bisogno dell’Italia di rimanere alleata con Francia e Germania?
«Che sovranismo è quello di chi si appiattisce sulle direttive Nato e Usa e si dimostra, più che un alleato, un servitore fedele? Meloni prometteva una pari dignità che per ora è tale solo nella retorica. Quanto all’Ue, per adesso della sua riforma radicale per anni auspicata e reclamata non si vede traccia. Ma c’era da aspettarselo: andando al governo, gli incendiari indossano la divisa dei pompieri».
Secondo lei che destra servirebbe all’Italia?
«Una che sapesse concretizzare alcune delle istanze conservatrici che a parole sostiene, per incrinare la cappa di piombo del politicamente corretto e di un progressismo che è di fatto l’involucro di un esasperato individualismo, camuffato dalla retorica dei "diritti". E che al contempo virasse nettamente a sinistra sul piano delle politiche sociali, senza piegarsi, per convenienza o per convinzione, agli interessi dei grandi gruppi economici e delle piccole clientele bottegaie. Ma, di nuovo, sono sogni».
La destra di Meloni non rischia di fare dei passi indietro rispetto a Fini?
«Rispetto a cosa? Alla deriva progressista che Fini mise in atto per compiacere la sinistra quando pareva che Berlusconi venisse tolto di scena dai guai giudiziari, ed avere il suo imprimatur a sostituirlo? Non mi pare che quella strada gioverebbe a Fdi. Se si riferisce invece al rapporto con la storia del neofascismo, a mio parere Meloni andrà molto oltre: nel suo tentativo di integrarsi appieno con gli ambienti liberal-conservatori e poi con quelli post-democristiani del Ppe, quella storia la liquiderà. Senza fragore. Sarà una dolce morte».