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 2023  maggio 25 Giovedì calendario

Le statue erette e quelle abbattute

Scrisse il romanziere scozzese Thomas Carlyle che nella Gran Bretagna del 1850 un monumento non lo si negava a nessuno. Tanto più che dappertutto non si faceva neanche caso alla fioritura di statue. «La cosa più strana dei monumenti», aggiunse settant’anni dopo Robert Musil, «è che non si notano affatto; nulla al mondo è più invisibile». Fanno notizia solo quando vengono abbattuti.
Vero. Si può dire con Arnaldo Testi – autore del libro super documentato e pieno di osservazioni intelligenti, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti, in uscita domani per il Mulino – che gli Stati Uniti abbiano addirittura segnalato al mondo la propria nascita con l’abbattimento di una statua, quella del sovrano inglese Giorgio III (a cavallo) donata da Londra all’America nel 1770. Dopo appena sei anni dalla sua inaugurazione fu percepita a New York come «un simbolo di oppressione», addirittura come «un’illegittima presenza straniera». Tant’è che il 9 luglio 1776, cinque giorni dopo la pubblicazione della «Dichiarazione di indipendenza», in una sorta di «regicidio a distanza» la statua venne distrutta da una folla di rivoluzionari assai eccitati: la testa fu separata dal resto del corpo e portata su una picca in giro per la città, il piombo venne fuso in pallottole da usare nel prosieguo della rivoluzione. Quello al sovrano britannico, nota Testi, era stato «il primo monumento equestre nel continente nordamericano». E fu anche «il primo a cadere in disgrazia».
Successivamente, e per decenni, in terra americana si convenne che di monumenti era meglio non erigerne più. Nel 1800 Nathaniel Macon, membro della Camera dei rappresentanti per la North Carolina, sostenne che le statue equivalevano a «perniciosi atti di ostentazione» e che non era il caso di dedicarne una all’ex presidente appena defunto George Washington. Dopo l’invenzione della stampa, fu la sua argomentazione, i monumenti non servono a niente. Poi Macon cambiò idea e approvò la decisione di Thomas Jefferson di commissionare ad Antonio Canova una statua di George Washington per l’atrio della State House di Raleigh. La statua, in marmo di Carrara, fu scolpita in Italia e portata in America nel 1821. Presentava uno strano Washington in abiti da cittadino-soldato romano con la spada che giaceva ai suoi piedi. Il Washington di Canova ebbe vita breve. Fu distrutto nel 1831 da un incendio che gli fece crollare addosso il soffitto della State House.
Trascorsero vent’anni e una nuova statua di Washington fu commissionata allo scultore Horatio Greenough, stavolta per il Campidoglio. Scolpita anch’essa in marmo di Carrara, fu percepita, scrive Testi, fin dal momento dell’inaugurazione, nel 1841, come qualcosa di «inappropriato». Washington, riferisce lo studioso, era «seminudo, con la toga sulle ginocchia, il petto palestrato, i bicipiti pompati, in posa più legnosa che ieratica». Sedeva su un trono ai cui lati c’erano due piccole statue: un Cristoforo Colombo «che contemplava il destino di conquista e di grandezza del futuro presidente» e un nativo americano visibilmente rassegnato a un futuro di sconfitta. Al posto di Colombo, racconta Testi, avrebbe dovuto esserci uno schiavo nero. Ma si decise che era meglio non «associare il padre fondatore alla schiavitù che lui stesso praticava». La statua, come s’è detto, fu oggetto di generale irrisione e, nella sua collocazione originaria, ebbe vita breve. Quantomeno all’interno del Campidoglio, da dove nel 1843 fu rimossa per essere spostata in un angolo appartato del giardino.
Qualcuno però aveva continuato a pensarla come il Macon prima maniera. «La democrazia non ha monumenti», annotò nel 1831 l’ex presidente degli Stati Uniti John Quincy Adams, «non conia medaglie, non porta la testa di un uomo sulle monete, la sua stessa essenza è iconoclasta». A dispetto però delle teorizzazioni di Adams, verso la metà dell’Ottocento furono collocati ai due lati della grande scalinata esterna del Campidoglio due gruppi marmorei: Discovery of America (1844) del napoletano Luigi Persico e Rescue (1853) di Greenough. Quello di Persico metteva in scena un muscoloso Cristoforo Colombo nell’atto di sollevare un globo terrestre; accanto a lui una donna nativa rappresentata in stato di soggezione di fronte al conquistatore. Quello di Greenough raffigurava pionieri che mettevano in fuga dei minacciosi nativi. Entrambi i monumenti, scrive Testi, «evocavano temi molto comuni a metà Ottocento, idee di destino manifesto, di espansione territoriale verso ovest, di sottomissione delle nazioni indiane, di timore della contaminazione razziale che potesse venire da donne europee rapite dai selvaggi». Per cinquant’anni furono considerati, ancorché non eccezionali dal punto di vista estetico, una dignitosa decorazione. Ineccepibili sotto il profilo ideologico.

Nel Novecento però iniziò a manifestarsi un fastidio sempre più marcato per il contenuto di quelle due rappresentazioni. Alla viglia della Seconda guerra mondiale, nel 1939, le critiche trovarono spazio in risoluzioni presentate (ma non approvate) alla Camera dei rappresentanti. Si parlava in quelle risoluzioni di immagini che costituivano un «gratuito insulto» agli abitanti originari del continente e «disonoravano» l’ingresso del Campidoglio. Dopo il conflitto, contro quei gruppi marmorei si sviluppò una campagna assai vivace del National Congress of American Indians, finché nel 1958, in occasione di un restauro del Campidoglio, furono «provvisoriamente» rimossi. Ma quella «provvisorietà» era destinata a durare: Discovery of America Rescue non tornarono più ai lati della prestigiosa scalinata. Fu quello, nota Testi, il primo Cristoforo Colombo a «cadere». «Per mano del Congresso degli Stati Uniti, non di contestatori di strada».
A quel punto, però, di monumenti in America ne erano stati eretti moltissimi. Il più famoso è il Lincoln Memorial a Washington, ideato subito dopo l’uccisione del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti, realizzato cinquant’anni dopo nel corso della Prima guerra mondiale e inaugurato nel 1922. Questo monumento non è stato oggetto di particolari controversie. Altri, invece, lo furono. Ad esempio, il Jefferson Memorial voluto da Franklin Delano Roosevelt per celebrare – il 13 aprile del 1943 (in piena Seconda guerra mondiale) – il bicentenario della nascita di Thomas Jefferson. Jefferson fu presentato quasi fosse un abolizionista. In un pannello fu riportata questa sua frase riferita agli afroamericani: «Niente è scritto con più certezza nel libro del fato che questa gente debba essere libera». Ma furono omesse le parole successive dove Jefferson sosteneva essere «altrettanto certo che le due razze, entrambe libere, non possono vivere sotto lo stesso governo» dal momento che «la natura, le consuetudini, le diversità di opinione hanno scavato tra di loro delle linee indelebili di divisione». La finalità dell’«imbroglio», spiega Testi, era «politica», di dare al Paese in guerra un messaggio di armonia e di conciliazione. Ma si trattava pur sempre di una manipolazione.
Lo stesso accadde in molti altri casi. Nessuno però propose all’epoca di abbattere quei monumenti. I contestatori sarebbero entrati in scena mezzo secolo dopo, tra il 2010 e il 2020. Le ripercussioni furono grandi e lo sono ancora oggi. Nel complesso però, scrive lo studioso, «si trattò del movimento di una minoranza di dissacratori contro una minoranza di simboli dissacrati». Dei cinquantamila monumenti che secondo un calcolo «approssimativo e incompleto» sono patrimonio degli Stati Uniti, «a essere molto maltrattati furono forse trecento, lo 0,65% del totale». I monumenti di Colombo abbattuti o rimossi furono una quarantina. Uno in marmo di Carrara «fu gettato nelle acque del porto di Baltimora, restituito all’oceano da cui era venuto». A fronte di quella quarantina, più di cento sono restati dove erano, mentre «migliaia di strade, scuole, edifici pubblici, città, luoghi geografici» hanno continuato a «onorare il nome del navigatore italiano». Lo stesso destino è toccato a un centinaio di statue di eroi confederati, laddove ne sono rimaste in piedi circa settecento. Insomma «non fu un massacro». Ma «l’impatto sull’opinione pubblica fu straordinario». Con grande scandalo nell’immediato, quantomeno sui media. I monumenti «cancellati» negli Stati Uniti sono stati dunque pochissimi, tutto sommato, in proporzione a quelli presenti nell’intero Paese. Ma hanno costretto gli studiosi ad avviare una riflessione su ciò che rappresentano. E gli studiosi hanno dovuto prendere atto, afferma Testi, del fatto che i monumenti lasciati a noi dal passato non sono «né innocenti né neutrali».

Sono oggetti controversi anche quando sono concepiti e non solo se e quando, in tempi successivi, vengono analizzati da critici culturali o contestati da attivisti politici. Scrive Testi: sono «performance presentiste», sembra che riguardino il passato ma «parlano sempre del presente e al presente»: il presente di quando «entrano in scena», il presente di ogni volta in cui «agganciano l’attenzione di qualcuno». Fingono di «commemorare» ma «celebrano». E celebrando «interpretano», evidenziano alcune cose, dando loro autorevolezza, e ne celano altre. Fa sorridere «che chi ce l’abbia su con alcuni di essi sia accusato di voler riscrivere o cancellare la storia». I monumenti stessi «sono riscrittura della storia e sua cancellazione selettiva». Farli e disfarli sono due facce della stessa medaglia, due «manifestazioni opposte e simmetriche dello stesso discorso pubblico, politico, civile, su cosa sia opportuno ricordare e cosa no». Le vicissitudini delle loro origini «sono altrettanto dense di disaccordi e spesso rivelatrici di ciò che si agita nel ventre della storia, più degli atti di iconoclastia». Ha notato Sanford Levinson che, con le dovute eccezioni, i monumenti rispecchiano i punti di vista prevalenti nei gruppi d’élite che li erigono nel momento e nel luogo in cui sono collocati e tendono a dare loro «la solidità di narrazioni storiche fattuali e indiscutibili», «memorie di un passato da ricordare sempre in quella forma», «memorie scritte nella pietra». Ma parzialmente per i contemporanei, e definitivamente per coloro che vengono dopo, niente può essere considerato scritto una volta per tutte «nella pietra». Tantomeno per gli storici.

Sicché la provocazione che più ha fatto clamore è stata quella dell’artista nero ribattezzatosi Dread Scott (all’anagrafe Scott Tyler). Il nome scelto da Tyler intendeva essere un evidente omaggio allo schiavo afroamericano Dred Scott che nel 1857 intentò una causa di fronte alla Corte suprema. Il suo scopo era quello di ottenere la libertà per sé, la moglie e le due figlie. Era in grado di dimostrare di aver vissuto quattro anni nell’Illinois e nel territorio del Wisconsin in cui la schiavitù era illegale. Ciò che – secondo i giuristi dell’epoca – gli avrebbe dovuto conferire una sorta di diritto all’emancipazione. La Corte, però, non solo non gli riconobbe quel diritto, ma emanò una scandalosa sentenza secondo la quale nessuna persona discendente dall’Africa poteva reclamare la cittadinanza americana. Sentenza destinata a rendere ancor più incandescenti gli anni che precedettero la guerra di Secessione (1861-1865).
Negli ultimi anni il quasi omonimo di quell’antico schiavo è diventato un teorico dell’abbattimento dei monumenti più controversi e della loro sostituzione con qualcosa che capovolga il senso della motivazione sulla cui base erano stati eretti. In un’intervista al «New York Times» (2018), Dread Scott ha formulato la «teoria dell’antimonumento». La discussione in cui intervenne Dread Scott verteva sulla figura di Robert Edward Lee, il generale della Virginia che, nella guerra civile, fu il capo dell’esercito degli Stati confederati. Una statua di Lee era stata appena rimossa ed era rimasta l’alta colonna su cui precedentemente svettava. Scott suggerì di abbattere anche la colonna e di lasciarne i frantumi sul terreno in modo da «rovinare il panorama, rendere la strada intransitabile, ostacolare il traffico». Tali rovine, sosteneva l’artista, avrebbero costretto i passanti a «fare i conti con la storia», a capire «come la schiavitù e le sue eredità continuano a tormentarci, a renderci difficile la vita». Inoltre, nel punto esatto da cui si innalzava la colonna, avrebbe dovuto essere scavata una buca delle dimensioni dell’intero monumento stesso (compresa la statua): venticinque metri. Quella buca profonda avrebbe dovuto rappresentare l’«abisso» a cui era doveroso affacciarsi. E non avrebbero dovuto essere erette barriere per «proteggere la gente dal caderci dentro». Così un secolo e mezzo dopo sarebbe potuto capitare a qualche passante distratto di pagare per le «colpe del generale Lee». E soprattutto di chi per oltre un secolo aveva continuato a rendergli omaggio.