Corriere della Sera, 25 maggio 2023
I ricordi di Kerry Kennedy
A trent’anni dalla strage di via dei Georgofili, l’associazione Robert F. Kennedy Human Rights Italia organizza oggi a Firenze il «cammino della legalità», un dialogo sulla lotta alle mafie con l’ex procuratore nazionale Pietro Grasso, l’ufficiale della Dia Edoardo Marzocchi, e il giornalista di TV2000 Gabriele Santoro, autore di La scoperta di Cosa Nostra , che ricostruisce la creazione del primo pool antimafia americano voluto da Robert Kennedy. «Tutti pensano a lui per il suo lavoro a favore dei diritti civili», spiega al Corriere la figlia Kerry Kennedy, «ma una delle sue battaglie è stata contro il crimine organizzato, che aveva infiltrato a ogni livello il mondo degli affari e il governo nel nostro Paese. Sapeva che, se non li avessimo fermati, ci avrebbero distrutto».
Che ruolo ha avuto suo padre nella lotta alla mafia?
«Nel suo primo anno da ministro di Giustizia, il 1961, le inchieste sul crimine organizzato aumentarono del 300% rispetto all’anno prima e le condanne del 350%. Riuscì a coordinare gli sforzi di Fbi, Secret Service, Fisco e altre 23 agenzie federali per raccogliere informazioni sui mille principali membri della criminalità organizzata. All’epoca l’Fbi era guidata da J. Edgar Hoover, che negava esistesse un problema di crimine organizzato e voleva spendere tutte le risorse per combattere il comunismo».
Come era vissuta questa battaglia in famiglia?
«Io ero molto piccola, ma ricordo che mia madre, invece di andare al parco, portava i miei fratelli più grandi in Senato ad assistere alle sedute della commissione antiracket, dove c’erano tutti questi personaggi che si appellavano al quinto emendamento, per non essere incriminati. A casa si scherzava che quelle fossero anche state le prime parole di mia sorella Kathleen, perché le aveva sentite così tante volte durante le udienze. A un certo punto poi alcuni di questi criminali minacciarono di tirare acido in faccia a me e ai miei fratelli: i miei genitori pensarono però che non bisognasse piegarsi davanti alla malvagità. Durante un’indagine sui capi del sindacato dei camionisti, invece, ci arrivavano enormi camion davanti a casa nel cuore della notte, che suonavano il clacson come un atto di intimidazione».
Cosa pensa della candidatura alla presidenza di suo fratello Robert Jr.?
«Voglio molto bene a mio fratello Bob, ha un grande carisma e uno straordinario talento nel parlare in pubblico. Penso che lui creda di fare la cosa giusta, e ha una lunga storia di battaglie giuste per l’ambiente. Detto questo, siamo in disaccordo su questioni fondamentali: la pandemia, l’accesso ai vaccini, il sostegno per l’Ucraina e la democrazia, giusto per citarne alcune. Io appoggio il presidente Biden perché ha ottenuto risultati straordinari».
Ad esempio?
«Quando è entrato alla Casa Bianca doveva affrontare crisi senza precedenti: economica, ambientale, giustizia sociale, pandemia. E lo ha fatto: negli Stati Uniti non c’è mai stata tanta occupazione come ora, ha risollevato l’economia, la pandemia è stata superata anche se non è finita, ha fatto approvare la più importante legge sulle infrastrutture dal 1956 e quelle per ridurre la violenza dovuta alle armi da fuoco, le più efficaci da trent’anni. E poi ha protetto i matrimoni Lgbtqi ed è riuscito a convincere il mondo intero a sostenere l’Ucraina».
Perché allora non riesce a vendere i suoi successi agli americani?
«Innanzitutto, perché ricevono le notizie per lo più dai social media, dove si ottengono più click con i discorsi d’odio che costruendo strade e ponti. Inoltre c’è un’unica ragione per cui le persone dicono di non volerlo votare: è troppo vecchio. Non per i suoi risultati o la sua competenza: solo per l’età».