la Repubblica, 24 maggio 2023
Il piagnisteo della cultura di destra
Basta con la cultura di sinistra, basta con l’egemonia rossa sull’arte e la letteratura, basta con gli intellettuali tutti da una parte, e i film pure, e i saloni del libro non ne parliamo. Ogni volta che la destra vince le elezioni riparte il piagnisteo, e non si offenda nessuno, il termine piagnisteo lo usò lo scrittore e giornalista Pietrangelo Buttafuoco, fascista tendenza Islam, ed era il luglio 2002, convegno sulla cultura di destra organizzato da Maurizio Gasparri per cavalcare il Berlusconi bis a Palazzo Chigi. Censura, boicottaggio, conformismo, le accuse sono sempre quelle come le domande senza risposta: e perché non c’è un Moretti di sinistra? E perché non c’è stato un Gramsci sovranista? E allora Giuseppe Berto? Non solo è identico lo schema – il piagnisteo, appunto – ma pure i nomi che intonano il canto dolente. C’era e c’è Marcello Veneziani a rivendicare il valore e l’ampiezza del pantheon destrorso, c’era e c’è Luca Barbareschi a coprire il fronte provocazioni mediatiche, c’era e c’è Giordano Bruno Guerri che almeno è l’unico che non si lamenta mai e ancora pochi giorni fa, ai Fratelli d’Italia in cerca di glorie intellettuali, ha sussurrato con eleganza un’obiezione: ma ce li avete nomi buoni da proporre? Che è poi ciò che dice da sempre un altro libero pensatore di area, Umberto Croppi, già protagonista della stagione eretica e tolkeniana dei campi Hobbit insieme al politologo Marco Tarchi: «Qualcuno – chiede Croppi – è in grado di fare un nome di un regista o di uno scrittore che non ce l’ha fatta in quanto di destra?». Lo stesso Tarchi, animatore di una rivista che ha fatto epoca nell’area, La voce della fogna, non ci gira troppo intorno: «La destra ha un complesso di inferiorità verso la cultura di sinistra».
Alla compagnia del piagnisteo si è aggiunto in posizione preminente Francesco Giubilei, consulente del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, esegeta di Roger Scruton, nume tutelare dei neoconservartori meloniani, da non confondere con i vecchi neocon statunitensi. Editore, agit-prop, ben introdotto tra i trumpiani e nell’Ungheria di Orbàn, poco più di un mese fa Giubilei ha organizzato un convegno «sull’immaginario nazionale» con la solita parola d’ordine: riprendiamoci la cultura. Pure qui, nulla che non si fosse già sentito, Prezzolini, Longanesi, mezzo Pasolini, un quarto di Evola. Tutto già visto, come nei decenni precedenti, a un livello più basso, i lamenti di Lando Buzzanca contro il cinema in mano ai “compagni”, o gli sketch sui “rossi” nel Bagaglino di Pierfrancesco Pingitore. Non è un caso che Alessandro Giuli, neo direttore del Maxxi di Roma, avesse già lanciato l’allarme dejà vu in un altro convegno sull’immaginario nazionale – a destra sembrano ossessionati dalla velleità di espugnare st’immaginario in mano ai comunisti – organizzato da FdI lo scorso dicembre: «Attenti – aveva detto Giuli – da noi si aspettano lo sciovinismo, una fioritura di mostre sul futurismo». Vero, se lo aspettano. E qual è la prima grande iniziativa del Maxxi targato Giuli in collaborazione con il MinCul di Sangiuliano? “Casa Balla”, la mostra allestita nella casa romana del pittore «che riflette le atmosfere del manifesto futurista». Giubilei, fervente anticomunista, si è lanciato in un altro classico del genere, la battaglia toponomastica, invocando la decomunistizzazione dei nomi delle strade. In un eccesso di zelo ha invocato che Roma capitale rinominasse via Tito, che Giubilei credeva intestata al maresciallo jugoslavo anziché all’imperatore romano. Succede.
Gianfranco Fini ci provò pure lui, ad allargare gli orizzonti. Radunò un cenacolo di intellettuali, in testa il politologo Alessandro Campi. Andò a un passo dalla consacrazione quando, da presidente della Camera, fu invitato dalla crocianissima e antifascista casa editrice Laterza a un convegno a porte chiuse sul patriottismo dove lo attendevano tra gli altri Stefano Rodotà e Miriam Mafai. All’ultimo minuto Fini telefonò per dire che «questioni istituzionali» gli impedivano di partecipare. Partito dai berretti verdi di John Wayne, Fini avrebbe potuto chiudere nel salotto di Benedetto Croce. Si vede che non era destino.
Esaurita la stagione finiana, FdI ha preferito tornare alle origini. Al Salone del libro di Torino dove Roccella si è presa le grida “fascista, fasciata” ha parlato indisturbato Alain de Benoist, faro della nouvelle droite che trent’anni fa pareva a tutti quello che è, un intellettuale neofascista, e oggi passa per un nuovo filosofo e non si merita nemmeno un extinction rebellion a contestarlo.
A un certo punto nella destra a caccia di intellettuali spuntò anche l’opzione campagna acquisti. Trent’anni fa i Gabbiani, la corrente del Msi-An in cui militava Giorgia Meloni, fecero i manifesti con Pasolini e Che Guevara. Vent’anni fa l’allora deputata forzista Gabriella Carlucci dichiarava il sogno di portare Riccardo Muti nella Casa delle libertà, mentre Ignazio La Russa puntava addirittura a Francesco De Gregori. Ma, a parte i desideri irrealizzati di Carlucci e La Russa, anche la corsa alla cooptazione ha il mugugno incorporato: e che facciamo, ci prendiamo i loro anziché valorizzare i nostri? Sì, risponderebbe Guerri, ma i nostri chi?