il Giornale, 24 maggio 2023
Intervista a Sergio Romano
Sergio Romano è uno dei più interessanti analisti della politica internazionale, e della storia della politica internazionale presenti in Italia. Questo sia per la sua lunga esperienza come ambasciatore, sia per la lucidità, mai verbosa o pesante, con cui si è dedicato all’analisi storica nei suoi molti saggi. Nato a Vicenza nel 1929, ha studiato a Milano ed è stato giornalista per alcuni anni. Rientrato in Italia dopo un anno alla Università di Chicago è diventato diplomatico e ha lavorato a Innsbruck, Londra, Parigi; è stato ambasciatore alla Nato e in Unione sovietica. Si è dimesso nel 1989 e da allora si è dedicato alla scrittura. La sua ultima fatica è La democrazia militarizzata (Longanesi, pagg. 160, euro 19). È il volume che presenterà a Gorizia domenica 28 maggio all’interno della 19esima edizione del festival èStoria (Teatro Comunale G. Verdi a partire dalle ore 11 e 30). Lo abbiamo incontrato con anticipo nella sua casa milanese, per farci raccontare le tesi del volume e dell’incontro a Gorizia. Per Romano la Prima guerra mondiale, che per oltre quattro anni devastò l’Europa, non finì davvero l’11 novembre 1918, con l’armistizio di Compiègne e la resa dell’Impero tedesco. A causa dei molti reduci e sopravvissuti che non riuscirono a ritrovare il proprio posto nella società, la guerra invece proseguì in altre forme: non fu più una continuazione della politica con altri mezzi ma divenne spesso l’unico mezzo con cui la politica pensò di potersi affermare e legittimare. Ed è proprio l’Italia il Paese che ha offerto al mondo i primi due esempi di politica «militarizzata». Ma quello che è successo all’epoca con le crisi delle democrazie deve comunque farci riflettere sul presente.
Ambasciatore Romano, come nasce la militarizzazione delle democrazie di cui lei scrive nel suo saggio e di cui si parlerà a Gorizia?
«È l’impresa di Fiume di d’Annunzio che in qualche modo da il via a questo fenomeno. Intendiamoci c’è molto di risorgimentale in questo. L’Italia diventa uno Stato attraverso una sorta di illegalità internazionale. E quindi la conquista di Fiume da parte di d’Annunzio che riporta in auge la violenza, seppure una violenza declinata in modo affatto particolare da un grande poeta. L’Italia che era nata combattendo si ritrova di nuovo in una condizione simile. E questo ha rapidi effetti sulla vita politica e sociale».
Ma non solo l’Italia, lei, nel volume, spiega che i reduci di tutti i Paesi tornarono a casa portandosi dietro un concetto dell’uso delle violenza completamente diverso da quello prebellico...
«Un uso della violenza giustificato sempre dall’obiettivo. I soldati erano stati addestrati a ogni orrore in vista di uno scopo finale. Si trasformarono una volta tornati a casa in uno strumento malleabile. Questo si rifletterà sull’organizzazione del partito fascista e la milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Il partito fascista trasforma i suoi iscritti in una forza militare. Anche in questo caso contava l’esempio di Fiume. D’Annunzio cantò questa militarizzazione, la rese affascinate, la nobilitò. Mussolini che era un giornalista che capiva bene il valore delle parole riutilizzò quella retorica per poi piegarla ad esiti diversi. Creò un meccanismo militare privato nello Stato. Il partito politico diventa forza armata. Questa connotazione militare si respirava dappertutto. L’aveva anche il sabato fascista».
In Italia questo fenomeno è evidente e l’Italia diventò un laboratorio politico ma il problema si presentò ovunque, anche negli Usa. In che termini?
«Innanzitutto la tendenza dei reduci è quella di perpetuare il loro status. Continuano ad essere reduci, il reduce non rinuncia mai alla sua connotazione militare. Anche negli Usa capita questo. E la gestione dei reduci che chiedevano i sussidi portò a veri e propri scontri e al tentativo dei veterani di occupare Washington. E questo è un precedente che deve far riflettere rispetto a ciò che è accaduto con Trump. E Trump resterà nella politica americana, continuerà ad avere un ruolo. Ma tornando agli anni Venti, la militarizzazione è ovunque, anche in Giappone succede la stessa cosa. È il tratto della politica. La politica si militarizza».
Oggi i conflitti sono tornati alle porte dell’Europa. Ucraina e Russia stanno ricorrendo a un’enorme mobilitazione. Comunque si concluda il conflitto c’è il rischio che il rientro dei reduci porti dei rischi politici?
«Non sono sicuro ci sia stato un vero vuoto, un’assenza di questo rischio. È sempre stato così, ovviamente il rischio di militarizzazione dipende moltissimo dalle caratteristiche personali del leader o dei leaders. Entro certi termini fa parte del sistema. Questi meccanismi caratterizzano l’intero Novecento e arrivano sino a noi...».
Dopo la Seconda guerra mondiale però la gestione è stata più facile, sia dal punto di vista del reducismo che del mantenimento della democrazia. Giusto?
«Teniamo conto che la Seconda guerra mondiale ha causato un numero enorme di vittime e devastazioni, la gente era prostrata. I nuovi partiti, come la nostra Democrazia cristiana, hanno dato spazio a ideali diversi. Poi c’è un meccanismo che parte anche prima del Secondo conflitto mondiale. Prenda il caso sovietico. Il partito, ad un certo punto, optò per la disciplina più che sull’eroismo militare. L’Unione sovietica iniziò a considerarsi uno stato adulto, puntò sul tutti uguali, sul tutti assieme. I militanti eccitabili finirono per diventare scomodi. Anche Mussolini una volta al potere dovette fare dei ragionamenti di normalizzazione. Da combattere si passa ad obbedire. È una equazione politica che ogni leader deve bilanciare».
E allora cos’è che ha reso la nostra politica odierna più pacifica e meno militare?
«A molti leader politici non piacerebbe sentirlo dire. Ma un grande aiuto alla democrazia lo ha dato il desiderio di arricchirsi, il desiderio di una vita più prospera, di godere della vita e dell’esistenza. I totalitarismi sono stati sconfitti così alla fine nel senso ideologico. Chi vuole arricchirsi non vuole combattere».
Capitalismo e democrazia vanno a braccetto?
«Certo, la parola capitalismo viene ancora usata con accezione negativa sia dai cristiani che dai laici di sinistra, ma gli dobbiamo molto».
C’era chi sperava che la globalizzazione stemperasse i conflitti proprio attraverso questi meccanismi economici...
«Era difficilmente immaginabile, io non ci ho mai sperato e non è accaduto e difficilmente accadrà. Almeno in senso assoluto. Può aiutare».
Andiamo verso nuovi conflitti difficilmente gestibili? Si dice che si sia andati verso la Prima guerra mondiale come dei sonnambuli...
«Credo di no. Alla fine le masse spero siano cambiate. Quelle esperienze restano nella memoria degli europei e non solo degli europei. Violenze nate per scopi ideali trasformate in violenze per scopi personali ne abbiamo viste abbastanza. La democrazia ha dimostrato nonostante tutti gli sbandamenti e gli inconvenienti di essere indispensabile alla crescita di un popolo. Noi siamo molto più democratici dei nostri nonni. Non ci sono dubbi, ci sono ancora gruppi sociali retrivi, ma la democrazia, guardandomi indietro, secondo me ha fatto progressi e messo radici».