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 2023  maggio 24 Mercoledì calendario

Martin Amis è stato il più bravo di tutti

«È questo che tentano disperatamente d’intendere quando dicono che sto diventando Kingsley. Si rilassino: sono già Kingsley». Arriva, ogni mezzo secolo, un’eccezione alla regola empirica per cui il talento fiorisce solo se sei figlio di nessuno, se hai avuto fame, se hai fatto fatica a entrare in un settore, se non hai ereditato l’azienda di famiglia. L’eccezione della prima metà del Novecento fu Eduardo De Filippo, che almeno uno svantaggio parziale ce l’aveva: il cognome della madre, non quello di Scarpetta, di cui era figlio illegittimo.
Kingsley Amis, probabilmente altrettanto certo di entrare nella storia del suo settore quanto lo era Vincenzo Scarpetta, si è trovato oscurato dallo stesso ineluttabile destino: generare uno più bravo di lui, più bravo di tutti, più bravo di quanto possano valere i «più bravo» d’un coccodrillo, un genere letterario che non prevede che sia morto un mediocre, e le cui lodi hanno quindi un’intrinseca inutilità.
Specialmente quando il più bravo ha già scritto meglio di quanto possa fare tu della vita e della morte. La vita così come vista da chi abbia le esigenze d’un romanziere in Esperienza, il memoir che Martin Amis scrisse a cinquant’anni: «Guardala: poca trama, carenze tematiche, sentimentale, ineluttabilmente ritrita. Il dialogo è poca cosa, o comunque di qualità incostante. I colpi di scena o sono prevedibili o sono sensazionalisti. E sempre lo stesso inizio, e sempre la stessa fine».
Ma torniamo al problema della bottega di famiglia. «In verità, questo è il mio tratto più raro: sono l’unico romanziere ereditario nella letteratura inglese. Epperciò, sono lo smanioso e zelante, e a questo punto molto anziano, principe Carlo delle lettere inglesi. E sono qui da più tempo di quanto ne avesse previsto chi mi ha invitato alla festa». È il 2010. Carlo ha sessantadue anni e sarà il figlio di sua madre per altri tredici. Martin Amis ne ha sessanta, ed è orfano di padre da quasi quindici: Kingsley è morto nel 1995, sei mesi dopo la pubblicazione dell’Informazione.
L’informazione è molte cose. È l’incipit più citato da gente che per il resto non ha mai letto Martin Amis (che invidia, quante meraviglie da scoprire), è la prova di forza d’un talento così eccezionale da sfidare il disinteresse dei lettori di romanzi per le piccinerie delle vite dei romanzieri, è il segno della stupidità dei critici che riescono a considerarla un’opera declinante rispetto a Money o a La freccia del tempo, ed è il libro che uccide Kingsley, la regina Elisabetta delle lettere.
Poiché non posso andare avanti troppe righe tradendo lo schema «Amis è morto: parliamo di me», dirò che L’informazione è anche il modo in cui io sono solita spiegare cosa succedeva quando la nostra finestra sul mondo erano le edicole, e la letteratura era una cosa viva quanto i pettegolezzi (e viceversa).
La prima volta in cui vidi il nome di Martin Amis non fu sulla copertina d’un libro, ma in un ritratto giornalistico di Tina Brown. Tina Brown è un lascito dell’epoca in cui i direttori di giornale potevano divenire leggendari. Quando ero al liceo dirigeva Vanity Fair. Quello americano, che all’epoca era l’unico che esistesse e una vetrina di pasticceria inarrivabile per le ragazze di provincia. In quel ritratto era riportata una frase che, ora che sono adulta e so i giornali, mi pare plausibile Tina Brown non avesse davvero detto. Richiesta di motivare il suo trascorso fidanzamento con Martin Amis, Brown secondo quell’articolo aveva risposto: mi scoperei chiunque sapesse scrivere così. (Sì, l’ho già raccontato, e sì, è un criterio che funziona meglio se sei Amis che non se sei Brown – ma questo nel Novecento non lo sapevo).
Quando uscì il libro con cui Martin uccise (letteralmente) il padre, avevo ventidue anni, e – a raccontarlo oggi non sembra neanche vero – bramavo il giorno d’uscita dell’Espresso e di Panorama (i vegliardi dei giornali ogni tanto si raccontano di quando ci si rubava la copia che arrivava in redazione, e non si capisce mai se rievochiamo quel tempo con più voluttà o incredulità). Potrei sbagliarmi ma mi pare che la storia di Martin che tradisce l’amico Julian Barnes, la cui moglie era la sua storica agente, per farsi rappresentare da Andrew Wylie, detto Lo squalo, e farsi dare un anticipo vertiginoso per un libro in cui racconta un odio amicale tra uno scrittore di successo e uno d’insuccesso, mi pare che quella storia la lessi sull’Espresso.
Ma non è importante, quel che voglio dire è: c’era un tempo in cui i pettegolezzi letterari facevano colpo sulle ventenni, e finivano per far leggere loro romanzi magnifici che si sarebbero altrimenti perse. Mentre lo scrivo sembra fantascienza anche a me.
E quindi è il 2010 (mica avrete perso il filo), e Amis pubblica La vedova incinta, il romanzo che contiene la più spettacolare pagina sull’invecchiare della storia della letteratura, e si lancia in una polemica di quelle del mondo di prima. Quelle in cui gli intellettuali si dicevano cose crudelissime in prosa splendida, prima che iniziassimo a chiamare i litigi “dissing” e a baccagliare a mezzo video su TikTok.
No, scusate, devo fare un’altra divagazione. La differenza tra uno scrittore bravo e uno pazzesco è: il secondo sa parlare. Non esistono scrittori grandiosi che balbettino banalità se intervistati, che costruiscano male le frasi su un palcoscenico, che non sappiano far fare cose invidiabili alle parole se non le hanno prima limate per giorni nella loro stanzetta.
Amis parlava benissimo. Le sue interviste sono citabili quanto i suoi libri, e c’è una serata dedicata a Larkin, a Harvard nel 1997, il video della quale è spettacolare quanto una pagina di romanzo. Amis butta lì con disinvolta ferocia verità su, per esempio, le persone prive di senso dell’umorismo, che non solo non riconoscono le cose che fanno ridere, ma non riconoscono quelle serie; risponde alle domande come comporrebbe un paragrafo: la prostituta che gli chiede di lady Diana è l’immagine che ogni lettore desidera; è, nell’esattezza con cui ritrae l’imbecillità americana, impeccabile quanto lo era The Moronic Inferno, la raccolta dei suoi articoli giovanili sulla cultura americana.
Quando il poeta Robert Bly si alza e gli dice che gli inglesi sono infantili con quella loro smania di prendere in giro tutti, è la perfetta chiusura di cerchio non solo rispetto alla mancanza di senso dell’umorismo ma anche rispetto a un titolo su Larkin che Amis ha citato qualche minuto prima: «Un vecchio amico che non m’è mai piaciuto», sinossi minima dell’Informazione ma anche perfettissima categorizzazione d’un genere di polemica sofisticata estintasi assieme alla società letteraria.


Ulteriore divagazione. Una cosa che mi fa dare testate al muro sono i critici che parlano della lingua d’un autore che leggono e recensiscono in traduzione. Tradurre l’inglese in italiano, lo sa chiunque conosca un po’ le due lingue, è inevitabilmente uno scempio lessicale e sintattico; per quanto si possa fare un lavoro accurato, quella che recensisci sarà la lingua del traduttore, non quella dell’autore. Il fraseggio di Amis, tuttavia, ha la forza d’un miracolo che non ho mai visto in altri: lo riconosci anche da tradotto.


Credo sia a quel tipo di forza, «una voce letteraria che era al tempo stesso unica e istantaneamente riconoscibile», che si riferisce Salman Rushdie, che ha scritto sul New Yorker «Solo Martin aveva il suono di Martin Amis, e non era saggio tentare d’imitarlo». (Amis è tradotto in italiano da Einaudi; domani, con un tempismo del quale è difficile capacitarsi, esce La storia da dentro, il libro su Bellow e Larkin e Hitchens che avrei dovuto capire fosse un testamento, ma è andata come con Nora Ephron: quando fanno libri per dirci il più chiaramente possibile che stanno morendo, io mi rifiuto sempre di capirlo. Sia Amis sia Hitchens sia Larkin sono morti di cancro all’esofago).


Ennesima divagazione. Una cosa che si porta molto, ho notato nelle ultime trentasei ore, è dire sì, bravo romanziere, ma io preferisco i suoi lavori saggistici. Non so, ma non avevo notato, da vivo, che i titoli delle sue tre raccolte di critica culturale – oltre a The Moronic Inferno, L’attrito del tempo e La guerra contro i cliché – sono già da soli un esaustivo trattato sul presente.


Insomma è il 2010 (mica avrete perso il filo), e sul Guardian Amis si lancia in una polemica contro la stampa e la riduzione a titolo acchiappallocchi di qualunque cosa lui dica. La vedova d’un vecchio amico, il disegnatore Mark Boxer, decide che ora è troppo, pure lamentarsi di venire decontestualizzato dalla stampa, ci sono un paio di cose che ti voglio dire da un po’, a proposito di gente che si ferma più di quanto avrebbe fatto piacere a chi l’ha invitata.


«Sei venuto a trovare Mark Boxer, mio marito, mentre stava morendo. Eri con Chris Hitchens. Mark era esausto perché siete rimasti troppo a lungo. Hai fumato vicino al suo letto. Più tardi ho appreso che la lunghezza della visita non era motivata dall’affetto ma dal fatto che avessi delle ore di buco prima di prendere un aereo a Heathrow. Quando te ne sei andato hai scritto un articolo sui tuoi sentimenti e le tue lacrime: non ho visto sentimenti né lacrime».


Ne nasce uno scambio di lettere che è difficile ricostruire con esattezza: non si è «Lo squalo» per nulla, e Andrew Wylie non ha concesso al Guardian i diritti sulle risposte di Amis abbastanza a lungo da trovarsi esse ancora nel loro archivio. Anna Ford, la vedova, ha il lessico del futuro: lo accusa di narcisismo e di mancanza di empatia; ma anche, più grave per noi gente del Novecento, di «lagne petulanti». Amis ci tiene a precisare che era Hitchens che fumava, che l’aereo l’hanno preso il giorno dopo, ma soprattutto che la sua contro la stampa non era lagna petulante ma «allegra ritorsione».


Chissà se Amis ha mai pensato di scrivere un romanzo non tanto sulle specifiche recriminazioni della vedova, ma sui ventidue anni trascorsi tra la morte di Boxer e il rinfaccio del suo fumoso capezzale. La vedova che per ventidue anni medita di fare un cazziatone a quello stronzo dell’amico del marito è un personaggio di Amis, ammesso che questa definizione abbia senso. Solo Martin aveva il suono di Martin Amis, solo Amis sapeva concepire un personaggio di Amis.


Dice Rushdie che Amis era figlio di tre padri: che da Nabokov aveva preso l’intellettualismo; da Saul Bellow il primato dello stile e la convinzione che sia il fraseggio che fa la letteratura («Lo stile è connaturato, mica qualcosa che si applica in un secondo tempo», aveva detto spiegando al Guardian perché proprio non poteva apprezzare gli scrittori che usavano frasi fatte); da Kingsley l’umorismo. Nella Guerra contro i cliché c’è una recensione della Controvita, il romanzo di Philip Roth; Amis dice che, dopo Portnoy, volevamo di più del sublime autore comico che Roth aveva dimostrato d’essere, e lui ce ne aveva dato di meno.


Non so perché, delle migliaia di citazioni citabili che la prosa di Amis ha prodotto nei decenni, mi venga in mente proprio quel dettaglio. Forse perché c’è questa esclusiva caratteristica della morte: essere il fastidio contro cui è impossibile inscenare allegre ritorsioni.