la Repubblica, 24 maggio 2023
Parla la pronipote del “Rapito” di Bellocchio
Il caso Mortara, che Marco Bellocchio porta alla ribalta del Festival di Cannes con il film Rapito, per Elèna è doppiamente importante. Perché riguarda la sua famiglia: è una pronipote di Ernesta, la sorella di Edgardo, che a 12 anni assistette al rapimento del bambino ebreo ordinato da Pio IX, restandone segnata per tutta la vita. E perché da studiosa ha dedicato alla vicenda molti anni, pubblicando negli Stati Uniti il libroWriting for Justice, 2015.
Ha visto il film.
«È stata una grande emozione rivivere questa storia attraverso la potenza del cinema. Bellocchio è riuscito a entrare nelle pieghe dell’anima della famiglia, a cogliere la violenza di ciò che è successo. Il film si concentra sull’essenza del dramma familiare e storico in un momento importante, il Risorgimento e le lotte per l’emancipazione, non solo degli ebrei ma di tutte le minoranze oppresse a metà Ottocento. Spero che possa toccare il pubblico, entrare nelle coscienze e nella storia di questo Paese, che ha dimenticato pagine importanti».
Quando ha scoperto la storia di Edgardo?
«È stata sempre nelle conversazioni familiari, è sorprendente pensare a quanto siamo storicamente vicini a quegli eventi. Mio padre, nato cinquant’anni dopo il rapimento, ha conosciuto Edgardo e fino alla sua morte, nel ‘40, si sono frequentati».
I primi ricordi da bambina?
«Di una grande violenza subita. So da mio padre e dagli zii che nonna Ernesta, quando era sul letto di morte, urlava disperata, chiedendo che non le strappassero i figli. Aveva paura — anche se ormai erano grandi — perché aveva interiorizzato il dramma del fratello, che le era stato portato via davanti agli occhi. Il padre di Edgardo, Momolo, ha speso il resto della vita nella battaglia per riavere il figlio. Casi simili erano avvenuti con frequenza ma grazie all’impegno della famiglia c’è stata una reazione anche internazionale mai vista prima».
Il papato vacillava.
«Erano gli ultimi momenti dell’Inquisizione. C’era ancora il ghetto a Roma, e Bologna era parte dello Stato della Chiesa. La condizione di sottomissione degli ebrei si vede nella scena dell’incontro tra la comunità ebraica romana e il Papa. Il povero segretario — abituato a essere maltrattato — si dispera per l’eco straordinaria che la famiglia ha creato in Italia e nel mondo.
L’abitudine era di cercare soluzioni senza fare chiasso. Il Papa: “Mi avete scatenato il mondo intero contro”».
Si aspetta reazioni dalla Chiesa?
«Spero che non ci sia chi difendal’operato di Pio IX. Apprezzo molto l’evoluzione della storia della Chiesa, la revisione del rapporto con la tradizione ebraica. Ma io mi sono impegnata in modo pubblico dal Duemila nel far conoscere la nostrastoria dopo aver appreso con stupore della beatificazione di Pio IX: ma come, beato lui, l’ultimo Papa che ha tenuto gli ebrei nel ghetto, che dopo il rapimento di Edgardo aveva risposto il “non possumus” allafamiglia, il Papa contro cui avevano dovuto combattere i soldati italiani per la presa di Roma? Ho scoperto che nel codice canonico attuale del 1983, rinnovato da Giovanni Paolo II, c’è l’articolo 868, paragrafo 2 , che rende ancora lecito il battesimo nascosto di bambini ritenuti in punto di morte, anche contro la volontà dei genitori, cattolici o non. Da questo punto di vista la Chiesa è ancora sulla breccia. Basterebbe dare seguito normativo ai concetti espressi da papa Francesco nell’enciclica del 2020 Fratelli tutti».
Anche Spielberg era interessato.
«Sì, venne da me Tony Kushner, lo sceneggiatore, a quanto so quel progetto forse esiste ancora».
La scena più emozionante?
«Quella in cui la mamma rivede, per la prima volta, Edgardo alla Casa dei Catecumeni. Dapprima lui è bloccato dalla presenza degli estranei. Ma quando lo stanno per portare via si precipita verso la madre, l’abbraccia, “io dico tutte le sere la preghiera ebraica, lo Shemah”. L’episodio è nella lettera della madre Marianna a un’amica.».
Che effetto ha avuto questa vicenda, negli anni, su Edgardo?
«Quei cattolici che si inorgogliscono per la sua conversione, il suo non ritornare alla fede ebraica, non realizzano quanto è facile formare la coscienza di un bimbo di 6 anni. Dal libro di Scalise, che ha letto i diari di Edgardo conservati in un luogo a istituzione cattolica a cui è difficile accedere, si evince che nella vita ha avuto grandi momenti di crisi, depressione, disperazione. Ha riallacciato i rapporti con la famiglia, ho un libro con la sua dedica, nel 1891: “Ai miei carissimi nipotini, il vostro aff.mo zio Pio-Edgardo. Ricordatevi di me”. Data la lontananza, era consapevole e addolorato di poter essere dimenticato dalla famiglia».