Corriere della Sera, 12 maggio 2023
Da "Troppo neri" di Saverio Tommasi (Feltrinelli)
Io non ho mai sognato di affogare, o forse una volta o due, da piccolo. In ogni caso i miei sogni non sono mai stati collegati a un viaggio in gommone, se ho avuto un incubo è stato per il ricordo delle storie di Dylan Dog, o i racconti di fantascienza di Isaac Asimov. Il perché probabilmente ci accomuna: sono un privilegiato. Non sono nato ricco, né particolarmente attraente. Però sono bianco e ho un passaporto che mi permette l’espatrio, e questi due elementi nel mondo che oggi frequentiamo sono già due proprietà distintive che scandiscono un privilegio netto, marcato, capace di fare la differenza tra la vita e la morte.
Due persone su dieci di quelle che incroci per strada, o che ti camminano accanto, o ancora i loro genitori, hanno incubi ricorrenti perché hanno dovuto fare i conti con un espatrio forzato.
Io no.
Tu, forse, neanche.
E nonostante questo non ci è del tutto indifferente la questione dei sommersi e dei salvati.
Siamo nati strani. Pesci fra i quadrupedi, oppure uccelli. Abbiamo scampato quel sentimento atavico di paura da Caino in poi, ma siamo chiamati a farlo ogni giorno e qualche volta io me ne scordo, penso ad altro, mi faccio i cavoli miei. Sopravvivere al disinteresse è una fatica, è necessario trovare il lato felice per andare avanti, ma non è facile in una storia di morti soffocati nelle cambuse di chiatte che avrebbero voluto essere navi, trovati senza più unghie sulle dita consumate nel grattare la porta per cercare un po’ d’aria, mentre altri - un metro sopra - stavano seduti su quella stessa porta impedendo l’apertura, e il respiro; che poi non era una porta, era una botola.
Il lato felice provo a trovarlo nelle pieghe delle storie che intercetto. Lo individuo in certi frammenti delle vite altrui, più che negli anni o nelle enciclopedie. Sono sassolini che raccolgo da una vita, non li colleziono, me li mangio e non li digerisco. Quelle storie-sassolini sono tutte lì, nel mio stomaco, a pesarmi. Quando però va bene diventano un libro e non sono più soltanto le storie nascoste dei sopravvissuti, o le mie pietre nello stomaco. Il lato felice sta nei racconti fatti a mano - mi piace chiamarli così - che raccolgo dai sopravvissuti. Quei racconti non sono opere d’arte, somigliano più a forme artigianali di artigiani inesperti, un colpo qui e una parola là, e nel mezzo un caffè macinato male da sorseggiare; qualche volta con troppo zucchero, come se lo zucchero potesse migliorare il sapore di un caffè nato male. Quei racconti hanno sempre i verbi sconnessi, parole onomatopeiche accompagnate da qualche movimento delle mani e gli occhi che ballano e raramente si poggiano su qualcosa per rimanerci.
Nessuno recita male come un sopravvissuto a un naufragio, eppure io non potrei vivere senza quelle storie, che per loro hanno quasi significato la morte. Il lato felice lo trovo dove si annidano anche i sopravvissuti, ho imparato a frequentare gli stessi anfratti: il gusto di un cibo, imparare a contare, la batteria carica del telefono, un paio di scarpe nuove, per qualcuno è il ricordo della madre, pochissimi invece sono coloro che mi hanno parlato del padre, che quasi scompare nella totalità delle testimonianze.
La madre è invece sempre un pensiero felice, per questo la ricordano i sopravvissuti nei racconti, oppure urlano il suo nome prima di morire.
In questo modo dissotterrando dalla mia mente le grida dei cinque fucilati allo stadio Artemio Franchi di Firenze, cinque renitenti alla leva imposta dalla Repubblica sociale di Salò; cinque fucilati che prima di morire - raccontano i testimoni dell’epoca - si pisciarono addosso dalla paura, e poi iniziarono a chiamare la mamma: «Mamma! Mamma dove sei?». Prima di morire d’immigrazione, in mare, c’è anche un’altra parola che i naufraghi gridano oltre a «mamma», e non è «aiuto».
La parola che gridano è il proprio nome, sperando che qualcuno lo ascolti e sopravviva per dirlo alla loro famiglia, per raccontare alla loro mamma il tragico epilogo, che non stiano a cercarli per il resto della loro vita, che si mettano in pace pure in mezzo alla disperazione.
Il lato felice va cercato, non è facile, è una mamma nascosta fra le grida. I racconti servono a questo: farci perdere l’equilibrio sbattendo in una pietra, come d’inciampo.
Il lato felice è questo: la vita è bella anche quando è contorta, spezzettata, perché di fronte hai una persona, sopravvissuta davvero.
I sopravvissuti veri, dicevamo. Non io, probabilmente non tu. I sopravvissuti quelli veri sono coloro che stavano per rimanerci secchi ma poi ce l’hanno fatta, contro ogni statistica e contraddicendo le possibilità. E poi spesso negli anni successivi si dannano perché non hanno una spiegazione, nessuno ce l’ha. Perché loro sì e gli altri no. Perché sopravvivere al mare è pure possibile, ma sopravvivere al computo dei tuoi compagni di viaggio che non ce l’hanno fatta, qualche volta non ci si riesce.
Fra le regole del viaggio, infatti la prima è: «Mai in viaggio con fratelli, mogli, genitori». E ancora di più: «Mai in viaggio con le figlie, soprattutto dagli otto anni in poi. Mai. Per nessun motivo».