il Giornale, 23 maggio 2023
Ritratto al vetriolo di Nicola Lagioia
L’unico difetto di Nicola Lagioia Lui, che ha salvato il Salone del Libro e lo ho moltiplicato in stand, appuntamenti e visitatori: ieri il solito dato record e alla fine l’edizione 2023 arriva alla cifra monstre di 215mila entrate – è che quando parla si crede un romanzo. Ultimamente è in fase guru: funghetti, il Bosco degli amichetti Scrittori nella campagna romana, psichedelia e sciamanesimo. Qualche settimana fa, durante una lectio sul rapporto tra Vita e Letteratura all’Università Cattolica di Milano, ha trascinato il pubblico al vertice della tensione fino a che, così dice Lagioia, una studentessa è scoppiata in un pianto irrefrenabile di gioia (con la minuscola).
La sua più che una carriera intellettuale è la via spirituale di un Maestro. Da sempre. Impose le mani sulla piccola casa editrice minimum fax, e ne fece il santuario del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda del partito comunista-capitolino, poi fiancheggiatore della fazione einaudiana romana e per estensione torinese (da cui il celebre grido «Dentro i faxisti nel Salone!»). Elevò l’Einaudi col suo personalissimo vangelo, La ferocia, e vinse lo Strega. Ha toccato il Salone di Torino e lo ha guarito da tutti i suoi mali, sanandolo dal fallimento, respingendo l’attacco frontale della fiera concorrente di Milano, superando con coraggio e una buona dose di fortuna l’incubo pandemia e esorcizzando tutte le destre possibili, procedendo dal basso ad Altaforte. E infine ha benedetto santa Annalena Benini, su intercessione di Alain Elkann, e lei è stata eletta direttrice. E l’intellighenzia tutta elevò il suo Inno. A Lagioia. Poi però, ma è solo una scivolata, dopo averci riconsegnato il Salone sette volte migliore e più grande di quando se l’è preso, l’altro giorno – travolto dal caso Roccella e scacciato dai golpisti rossi d’Ultima generazione – è scappato come il peggiore degli antieroi.
Ma a suo modo, per essere un eroe, Nicola Lagioia è un eroe. Un po’ per come porta senza imbarazzo quelle camicie finto hawaiane, t-shirt Pink Communist, occhiale d’avanguardia Jacques Durand sempre accanto alla moglie-musa, lui un po’ il Brian Ferry di Capurso, lei Jane Birkin versione cubista. Un po’ perché Lui fa tutto, o lo ha fatto, con successo: il ghostwriter, l’autore, l’editor, il direttore editoriale, il romanziere, il saggista, il giornalista, il conduttore radiofonico, il presentatore, il direttorissimo. Guru e trino, è la grande superstar del piccolo mondo dei lettori, che per sette anni ha radunato, applaudendo e leggendo, al Salone del libro di Torino. Lui è quello che tutti gli intellettuali vorrebbero essere. Famoso, ricco («Con tutti i soldi che guadagna») e potentissimo, in particolare sull’asse Repubblica-Einaudi-RadioTre-Esquilino. Ed è persino di sinistra.
A sinistra dei dem-centristi e un po’ a destra di Christian Raimo, Nicola Lagioia è partito da Bari, periferia incancrenita di via Bitritto, concerti al Pellicano e l’ambizione di suonare la batteria alle feste di paese, laurea in Legge e poi via subito dalle Puglie prima che diventassero il posto più cool del Sud Italia. Lui voleva Roma, e soprattutto scrivere. Parte da Castelvecchi alla fine degli anni ’90, lavorando nella casa editrice e pubblicando il suo primo libro: un romanzo a più mani che esce sotto il nome collettivo di «Aldo Dieci», un po’ meno di un flop, un po’ più dell’amico cannibale Antonio Centanin. Titolo: Route 66. Da qui parte la sua personalissima strada della gloria, passando per minimum fax, dove dirige la collana di narrativa italiana «nichel», primo nucleo editoriale di quella famiglia allargata, un po’ setta un po’ comune – Pascale, Pacifico, Valeria Parrella, Laura Pugno e i fratelli Grimm del Terzo Municipio: Christian&Veronica Raimo – che poi tappa dopo tappa, dall’Einaudi al Lingotto, e dopo anni di riviste, vecchi clan e Nuovi Argomenti, festival, premi, Saloni, radio e programmi condivisi, si riaggregherà nel falansterio queer di Michela Murgia&Co., una bolla autoreferenziale dove Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein, si fa tatuare sul braccio il logo di Morgana, il podcast-libro della Murgia e di Chiara Tagliaferri, la moglie di Lagioia, in una koinè di Potere, Amichettismo e Ostentazione. E poi tutti a cena ai Parioli a casa di Claudio Baglioni. L’intellettualità italiana come un allegro dopo-festival.
È vero, il Salone del Libro non è un festival ma una fiera. E lui l’ha fatta benissimo. Determinato, carrierista che non fa niente per caso, grande capacità comunicativa (sa sfruttare tutte le sue conoscenze e l’arma della propaganda) e straordinaria abilità nel puntare a un obiettivo preciso senza farlo trasparire, Nicola Lagioia aveva tutte le caratteristiche del Direttore Perfetto. Pedigree politico purissimo, un cerchio magico romano di consulenti fidati e la predisposizione a muoversi senza refusi fra le righe della politica. Chiamato alla direzione del Salone per l’edizione del 2017 dall’allora Presidente della Fondazione per il Libro, Massimo Bray, e sponsorizzato dal ministro della Cultura Dario Franceschini e dal governatore Sergio Chiamparino (quando vigeva l’infallibile metodo che prende il suo nome: «Io pago, io comando, io decido»), Lagioia è stato capace di restare ai vertici del Salone con chiunque governasse il Comune di Torino e la Regione Piemonte: il Pd, i CinqueStelle, Forza Italia e l’avrebbe potuto fare anche con Giorgia Meloni, se avesse voluto. Una cosa che in una città come Torino, peraltro, può riuscire solo a un predestinato o a un funambolo.
Amico di tutti, critici e scrittori (persino di Melissa P.), amato da tutti, editori e lettrici, iroso per istinto ma capace di dominarsi (quando l’ex amico Massimiliano Parente scrisse sul Giornale un memorabile «Inno a Lagioia», la sera stessa Nicola andò sotto casa sua con una mazza da baseball, ma poi desistette), se c’è una virtù in cui eccelle, bisogna dargli il merito, è quella di sapere smussare i contrasti. Da cui il suo motto: «Mai attaccare di fronte, sempre aggirare il nemico». E anche l’amico se necessario (per colpirlo alle spalle, aggiungono i maligni). Ed ecco il soprannome di Ciriaco De Mita del Salone.
Camaleontico, fluido, anima democristiana – Realpolitik e tartine – è stato l’uomo per tutte le stagioni e di tutti i Saloni: nascostamente più faziano di un Fabio Fazio, apparentemente meno fazioso dell’ala movimentista dei suoi pretoriani à la Raimo. E ieri, chiuso il suo settennato dei record fatto di qualche inevitabile polemica e centinaia di migliaia di biglietti venduti, San Nicola di Bari, portato in processione da Roma a Torino, andata senza più ritorni, si è pure tolto la soddisfazione di lasciare dietro di sé una trionfale dichiarazione lastricata di pluralismo e indipendenza. In letteratura si dice autofiction.
Ora, visti i successi, sarà dura per chi gli succede. Bisognerà fare – almeno – come lui. Intanto Annalena Benini, che negli anni d’oro del Foglio guidò con Giuliano Ferrara la battaglia in difesa dell’embrione, ieri ha detto che sul caso Roccella avrebbe fatto la stessa cosa di Lagioia. Chissà se è vero.
E per quanto riguarda Nicola – cinquant’anni un mese fa, gattaro, affamato di visibilità come un lupo – è già pronto a dedicarsi a nuove sfide, editoriali e magari politiche. Qualsiasi cosa sceglierà, Auguri. Come il messaggio (un po’ imbarazzante) che gli ha dedicato il suo staff: «Son 50 candeline di letture sopraffine, per chi anche nel cognome porta gioia in ogni dove! Quindi oggi, con calore: tanti auguri, direttore!».
Anche da parte nostra.