ItaliaOggi, 23 maggio 2023
Scerbanenco, dal rosa al nero
Si è da poco riscoperto il colore mercé l’armocromia ostentata da Elly Schlein. Il colore ha conosciuto fasi alterne in tante discipline culturali: rammentiamo come restino soltanto residui cromatici nelle statue o nei templi greci, che anzi erano esaltati nel Settecento proprio per il loro preteso nitore. Se c’è uno scrittore che assurge ai vertici della cromia, possiamo considerare Giorgio Scerbanenco.
Oggi lo scrittore, ucraino italianizzato a ogni effetto, è noto essenzialmente per i suoi scritti «neri». Non dobbiamo interpretare «neri» come lettura politicamente corretta di «negri», ma semplicemente quale definizione del ciclo che da oltre mezzo secolo (morì nel 1969, era nato nel 1911) l’ha reso un maestro del giallo italiano, con i quattro polizieschi incentrati su Duca Lamberti.
Curiosamente, l’attività prevalente del poligrafo Scerbanenco (scrisse di fantascienza come di amore, di western come di politica, di consumo come di autobiografia) era stata invece, dagli anni trenta fin quasi al termine del suo operare, dedicata al rosa, cioè ai periodici femminili, alla posta del cuore, a racconti e vicende incentrati sui sentimenti, sull’amore, sui rapporti fra uomo e donna. Poi, il viraggio, passando crudamente al nero.
Neri sono i ventidue racconti, apparsi nel 1968 su Novella 2000, ciascuno su un numero diverso, presentati in Milano calibro 9. Delitti, furti, assassini, riempiono le pagine senza quasi concedere spazio a qualche elemento che si possa considerare almeno in parte umano. Non c’è un respiro di tolleranza, non c’è un lieto fine, non c’è una riga divertita, non c’è un aspetto scanzonato. Pugni, coltelli, pistole, bastoni: tutto si usa per recare danni, senza possibilità di salvezza. Fernando De Leo trasse un film da alcuni fra questi racconti, serbando il titolo complessivo (1972).
Affiorano sovente ricordi e impressioni di Milano, ma una Milano acida, avversa, citata sovente soltanto per richiami toponomastici e cenni di conoscenza diretta. In copertina si nota il Settebello, unico treno classificato di lusso dalle Ferrovie, in sosta nella Stazione centrale milanese.
Ovviamente domina sovente la nebbia, anche se confusa con apparizioni inattese di colori: «Guardò attraverso le tendine rosa dei due finestrini e vide il profilo nebbioso degli alberelli del bosco, nebbioso per un raggio di sole che, cadendo dagli alberi, attraversava quasi orizzontalmente la roulotte e rendeva nebbioso il rosa delle tendine … C’erano anche dei fiori, lì nella roulotte, fiori freschi faticosamente racimolati lungo tutta la riviera veneta e romagnola, emergevano dal basso vaso largo coi loro colori vividissimi, rosso, lilla, bianco, arancio, giallo, sembravano un’accesa aiuola sorgente dal piccolo tavolino». È evidente come lo Scerbanenco avvezzo ai suoi scritti precedenti, in cui il colore non aveva una funzione deteriore, riprenda antiche predilezioni per una multiforme cromia.