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 2023  maggio 22 Lunedì calendario

Attenti al Gorinto

A cinquecento metri da casa mia, alla fine di un campo di erba medica, scende un piccolo rio, quasi sempre a secco perché sull’Emilia occidentale, da almeno tre anni, piove pochissimo. Sarà lungo, a occhio e croce, tre chilometri. Uno sgorbietto sulla crosta del mondo. Un minuscolo capillare del sistema di circolazione delle acque sulla superficie del pianeta.



Non sapevo che avesse un nome e invece, un giorno del maggio 2019, ho scoperto che un nome ce l’ha. Si chiama Gorinto, quando me l’hanno detto mi è venuto da ridere perché è un nome che suona pomposo, un nome da fiume vero. E il Gorinto, invece, è il più insignificante dei corsi d’acqua, praticamente uno scolo. Infilandosi in un grosso tubo di cemento, l’acqua passa sotto una strada sterrata. Mezzo chilometro più a valle incontra un altro piccolo rio, il Taffone, e le due acque scendono insieme a fondovalle, confluendo nel torrente Tidone che arriva pigramente fino al Po.


Il 28 maggio del 2019 il minimo Gorinto, d’improvviso gonfio e impetuoso come un bisonte infuriato, è esondato, portandosi via un pezzo di strada e qualche pertica del mio campo di erba medica. (La pertica è una misura agricola medievale rimasta in uso ancora oggi. In ogni zona d’Italia vale un numero diverso di metri quadrati. Dalle mie parti, in Emilia, per fare un ettaro ci vogliono quasi tredici pertiche). Da quel giorno ho saputo che aveva un nome; e in sostanza ho capito che quella fenditura nel terreno, per anni valicata senza uno sguardo, era pur sempre un corso d’acqua, scavato dalle piogge nelle migliaia di anni. Ogni rilievo ha i suoi impluvi: sono i solchi di scorrimento delle acque, se sono proprio lì è perché la geomorfologia, tirando le somme delle varie pendenze e della consistenza del terreno, lì ha deciso che devono essere.


Perché il Gorinto esondò, in quel maggio di quattro anni fa, convocando ruspe e badili attorno al proprio letto ormai sfatto? Perché una pioggia particolarmente abbondante, precipitando lungo quel breve e ripido corso, aveva incontrato detriti in grande quantità. Alberi vivi e morti, ramaglie, sassi piccoli e grandi. Trascinati verso valle, i detriti avevano fatto diga e ostruito il rio. L’acqua era esondata, pesante e copiosa, erodendo in pochi minuti campo e strada.
Nel tratto che corre sui miei terreni, che sono coltivati, il rio era abbastanza pulito. Solo qualche salice di troppo: niente piace ai salici come crescere addosso ai corsi d’acqua, se possono anche dentro. Il guaio vero fu che il tratto a monte (appena un chilometro di lunghezza) corre nella boscaglia, tra terre incolte da molto tempo. Nessuno lo puliva da chissà quanti decenni. Gli uomini devono aver pensato che del Gorinto non fosse il caso di occuparsi, oppure se ne erano semplicemente dimenticati. Vivevano qua attorno, prima dell’industrializzazione, molte centinaia di persone. Ora siamo in poche decine. Tenaci, ma pochi.


Se vi ho raccontato questa piccola storia è perché, in scala ridottissima, quasi casalinga, è il riassunto preciso e implacabile delle nostre disgrazie. È una storia che capisce anche un bambino: “dissesto idrogeologico” è un concetto impegnativo, ma sturare uno scarico, pulire un fosso, liberare dalle foglie una grondaia è pensiero pratico, vita quotidiana, mani al lavoro. Il regime delle acque, che nella sua parte celeste sfugge ampiamente al nostro controllo, nella sua parte terrestre va governato e sorvegliato. I corsi d’acqua non devono avere tappi, devono essere pervi, come le arterie e le vene nel nostro corpo.
A meno che si decida che la natura ha il diritto di levarsi di dosso il nostro ingombro (è la tesi che sta alla base dell’ambientalismo più radicale), e dunque i corsi d’acqua vadano lasciati liberi di sommergere i coltivi e i frutteti, annegare le bestie, erodere le valli e farle franare, diroccare le case, e insomma la sola cosa che ci resta da fare sia prepararci a levare l’incomodo; a meno, dicevo, di stabilire che per la natura siamo solo un parassita, una degenerazione, la nostra presenza deve manifestarsi come manutenzione e cura di un corpo del quale siamo parte integrante. E siccome, a differenza del luccio, della nutria, del cuculo e dello scarabeo, noi abbiano tecnologia, e dunque un potere di intervento enormemente più rilevante di tutti gli altri animali; e siccome abbiamo usato fin qui questo potere con ingordigia e imprevidenza nei confronti di Gea, a nostro stesso discapito; ora siamo obbligati ad aggiungere, al potere tecnologico, anche una nuova sapienza e una nuova cultura. Cambiare paradigma, come si dice.


Così la penso. Ma evidentemente non siamo in tanti a pensarla così, perché a dispetto dei fiumi (di parole) e delle alluvioni (di retorica), ci sono decine di migliaia di Gorinto, solo in Italia, che nessuno sorveglia, nessuno pulisce, nessuno rinforza. Quei fiumetti insignificanti sono in attesa del prossimo diluvio per venire a svegliarci di notte, scaraventarci giù dal letto, costringerci a farci un paio di domande sul quoziente di intelligenza medio di homo sapiens.


“Il regime delle acque, che nella sua parte celeste sfugge ampiamente al nostro controllo, nella sua parte terrestre va governato e sorvegliato.”


***


Si sbaglia. Dopo quasi mezzo secolo che scrivo, ancora mi capita di scrivere cose sbagliate. Non si sbaglia per dolo o per malafede, si sbaglia per distrazione o per fretta o per un cortocircuito neuronale, ma si sbaglia ugualmente, e la cosa è sempre seccante. Particolarmente seccante, per uno che vi ha appena intrattenuto sulla salvaguardia dei crinali, è avere confuso la pala e la vanga. Pochi giorni fa, nel mio commento in prima pagina su Repubblica a proposito dell’alluvione in Romagna, ho tirato in ballo la vanga: invece era la pala, accidentaccio. La vanga, più aguzza, serve a rivoltare il terreno dopo averlo inciso e penetrato. La pala (o badile) serve a spostare materiale – sabbia, terra smossa, ghiaia. Il fango si spala, non si vanga. Me lo ha fatto notare un lettore di Repubblica, Paolo, con tatto e gentilezza. “Guarda che forse volevi dire pala”. Sì, volevo dire pala, e invece ho scritto vanga.


Il mio rapporto con l’errore, negli anni, si è come rasserenato. Da giovane ci rimanevo malissimo, non accettavo di avere sbagliato, credo di essere arrivato perfino a negare di avere scritto una scemenza pur di non doverlo ammettere. Dire “ho sbagliato” mi costava, mi bruciava. Ora l’errore va semplicemente a finire nel conto generale, nel grande sacco delle cose dette e fatte, è l’impurità inevitabile, l’inciampo di un lungo cammino. Io sono anche le belinate che ho scritto – direbbe il saggio. Questo non mi autorizza ad allentare la sorveglianza sulle mie parole, ma mi permette di non sanguinare più quando sbaglio. Le cicatrici, alla mia età, prevalgono largamente sulle ferite. È tra i pochi vantaggi dell’età.