La Stampa, 22 maggio 2023
Emmanuel Carrère parla della guerra e di Putin
Secondo lo scrittore Emmanuel Carrère, quando pensiamo alla Russia dobbiamo fare lo sforzo di adattare la nostra idea di democrazia alla loro, e capire che là quell’idea non c’è. «La Russia ha conosciuto pochissima democrazia, se non per pochi anni sotto Boris Eltsin», ha detto dialogando con il giornalista Marco Imarisio al Salone del Libro di Torino, di fronte a una sala stracolma. «Certo, a noi fa comodo credere che il loro appoggio alla guerra sia dovuto alla propaganda. E in un certo senso è vero che vivono in un universo parallelo. Ma non si tratta solo di quello». In effetti, ha spiegato Imarisio, spesso uscendo dalle città e incontrando le persone delle campagne è normale sentirsi dire che Putin li ha «aggiustati», e che solo grazie a lui stanno ritrovando fiducia nella nazione. Non vale per tutti i russi, naturalmente, e generalizzare non si può, ma è importante capire che dietro al sostegno della popolazione al conflitto ci può essere, in gran parte, anche un sentimento di rivalsa: il desiderio di tornare a splendere al pari della Grande Russia che sono stati costretti a lasciarsi alle spalle dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Carrère si è detto d’accordo, ma è convinto che la questione sia ancora più profonda, e abbia a che fare appunto con un fatto: la Russia non ha mai davvero fatto esperienza di democrazia, se non per un attimo, e in quell’istante comunque le è parsa una cosa brutta: «Noi occidentali ormai siamo abituati a considerarla una cosa buona, a cui dovrebbero aspirare tutti. Per i russi non è così: per come l’hanno vissuta loro, è una forma di governo pericolosa, disordinata, un male da cui bisogna a tutti i costi proteggersi». Lo scrittore pensa che cercare di comprendere quella mentalità sia fondamentale, e che provarci non significhi appoggiarla. Qui si ricollega agli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, al centro del suo ultimo libro V13 (Adelphi), in cui racconta il lungo processo che ne è seguito. All’epoca dei fatti, l’allora primo ministro francese Manuel Valls aveva dichiarato che «tentare di capire è già giustificare», una frase che per Carrère non solo è una «connerie», ovvero una cazzata, ma è anche un controsenso giuridico: «Un processo serve proprio a comprendere, e a farlo con rigore e metodo. Tornando alla Russia, anche in quel caso, a me piacerebbe ascoltare le ragioni di Putin, entrare nella sua testa». Il prossimo lavoro a cui si dedicherà, ha poi spiegato, sarà la sceneggiatura del romanzo Il mago del Cremlino, dell’italiano Giuliano Da Empoli. In Italia è pubblicato da Mondadori, ma è stato scritto in francese e originariamente è uscito per Gallimard, perché l’autore, professore di politica comparata a Parigi, vive in Francia da molti anni. Ebbene, al centro del libro c’è il personaggio immaginario di Vadim Baranov, consigliere di Putin e artefice della sua ascesa, ispirato allo spin doctor Vladislav Surkov. «Da noi ha avuto un successo strepitoso. Credo che in Italia se ne sia parlato meno, e mi chiedo perché». Ripensando invece a uno dei suoi titoli di maggior successo, Limonov, da molti giudicato «uno stronzo», ha confidato che per lui «Limonov ha vissuto rimanendo sempre fedele a una specie di sogno d’infanzia: essere un avventuriero. E per questo io lo rispetto». Un’ora prima, in un altro evento dedicato a lingua e traduzione con Ilide Carmignani (ispanista e traduttrice di alcuni tra i più grandi autori latinoamericani) ed Ena Marchi (la storica editor di Adelphi che ha curato tutte le edizioni italiane dei suoi libri), Carrère ha raccontato delle sue origini georgiane, svelando che legge un po’ di russo, anche se non quanto vorrebbe. Capisce l’italiano, conosce bene l’inglese, ma l’unica lingua a cui ha davvero accesso è quella a cui appartiene da sempre, il francese. Ha poi parlato a lungo del suo amore per il cinema. «Lavorarci mi ha segnato e mi ispira anche nello scrivere. Negli ultimi due libri, per esempio, mi sono divertito a far procedere la narrazione per capitoletti che nella mia testa sono l’equivalente delle sequenze in un film. E questo dà ritmo alla scrittura, mi diverte. Anche se, quando mi è capitato di fare il regista (ha fatto tre film: Retour à Kotelnitch, L’amore sospetto e Tra due mondi, ndr), mi sono sempre sentito un po’ ingessato: in quel caso il mio sapere è di tipo scolastico. Solo quando scrivo sono davvero io, è l’unico mio vero talento». Ha poi rivelato, e chi l’avrebbe mai immaginato, che fino a poco tempo fa ha scritto tutti i suoi libri battendo al computer con un dito solo: non sapeva che si potesse fare diversamente. Quando ha scoperto la cosa, il suo editore all’inizio l’ha presa sul ridere: gli ha spiegato che si può battere con dieci dita, e si fa molto prima. «Io ho sorriso ma non gli ho dato retta. Dopo qualche mese, una sera in cui avevamo bevuto entrambi, sentendo che avevo continuato a scrivere con un dito lui è andato su tutte le furie, e mi ha gridato che dovevo darmi una svegliata». E lui l’ha fatto: ora scrive non con dieci ma con sei dita, che comunque è già meglio di uno soltanto. «Peccato che con sei dita faccio più errori, quindi alla fine il tempo che ci metto è sempre lo stesso, quello che guadagno lo perdo poi a correggere». Ma come si fa a convivere con un talento come il suo? Non si ha mai paura che un dono del genere un giorno possa finire? Prima di lasciarlo andare gliel’abbiamo chiesto. «Sì, certo, è un pensiero che ogni tanto mi viene, e mi fa paura», ha risposto alla Stampa. «Per ora non è un’ossessione. Se dovesse succedere, mi direi che anche la fine del talento fa parte della vita».