Corriere della Sera, 22 maggio 2023
“Razza”, parola che fa litigare
La proposta del deputato democratico Arturo Scotto che chiedeva di abolire la parola «razza» dai documenti della Pubblica amministrazione è stata bocciata dalla Camera. Eppure si tratta di una delle parole più nefaste che ci siano nel vocabolario, poiché evoca il genocidio nazifascista. Tant’è vero che la partecipazione italiana all’olocausto fu divulgata e sancita da una rivista intitolata «La difesa della razza». Se il termine è in auge nei documenti ufficiali, per la verità lo è anche nell’articolo 3 della Costituzione, dove lo si usa per negarlo, e cioè per condannare il concetto di discriminazione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Il vocabolo «race» è stato abolito nel 2013 da tutta la legislazione francese. Fino agli anni Cinquanta, l’etimologia veniva unanimemente ricondotta dagli specialisti al latino «generatio» o «ratio» (principio o ragione), elevando il concetto alla sfera filosofica. Il critico e linguista ebreo austriaco Leo Spitzer, che nel 1933 espatriò in Turchia, pubblicò un saggio in cui intendeva dichiarare alla Germania nazista che la parola (da «ratio») era di origine «altamente spirituale». Fu il filologo Gianfranco Contini, che aveva partecipato alla liberazione dell’Ossola, a rivelare in un saggio del 1959 che la parola, attestata nell’italiano del Duecento e da lì diffusasi in tutta Europa, derivava dal francese «haraz», che significava allevamento di cavalli, mandria. Di fronte ai dubbi persistenti dell’illustre studioso svizzero Walther von Wartburg, la natura «equina» e «zoologica» del termine venne confermata da ulteriori scoperte di Francesco Sabatini, che escludevano la provenienza «razionale» consegnando definitivamente il vocabolo, diventato ignominioso, al contesto non umano originario.