la Repubblica, 22 maggio 2023
I piani anti-dissesto falliti in dodici anni
Pensavo fosse un piano straordinario, invece era un calesse. Intitoliamola così la commedia all’italiana che è la lotta al dissesto idrogeologico, in modo da chiarire fin da subito in quale ambito ci muoviamo e cosa ci dobbiamo aspettare dal finale. (Spoiler: poco e niente). Il canovaccio è trito e diviso in tre atti. Il primo: disfare quel che ha fatto il precedente governo, a prescindere. «Avevano un piano, ma non funzionava, troppo lento e farraginoso. Il nostro, invece…». Secondo atto: lanciare il nuovo piano straordinario in conferenza stampa (rigorosamente dopo la catastrofe, perché prima il tema dell’ambiente nell’agenda politica non lo trova neanche un rabdomante) scegliendo un nome che guardi al futuro. Alcune idee: ProgettItalia, Strategia Italia, Italia sicura, CantierAmbiente, Piano Suolo. Terzo e ultimo atto: alla prossima catastrofe, che ne certificherà il fallimento, scaricare la responsabilità su burocrazia, codice degli appalti, enti locali, ricorsi in tribunale, la fine della legislatura, la pandemia, la sfortuna.Sono almeno 12 anni che va in scena la replica di questa commedia, scritta male, pensata peggio e pericolosa per tutti. Nel 2010 c’è Stefania Prestigiacomo al ministero dell’Ambiente quando, a seguito dell’alluvione di Giampilieri (37 morti), si chiude per la prima volta il rubinetto dei finanziamenti a pioggia delle opere antidissesto e si apre alla pianificazione pluriennale, condivisa con le Regioni. Lo chiamano Piano Suolo: 19 commissari straordinari, 1.519 interventi individuati tra scolmatori, invasi, casse di laminazione, argini, consolidamenti, 2 miliardi stanziati subito. Dall’elenco mancano interventi cruciali come la sistemazione idraulica del Bisagno, dell’Arno e del Seveso, comunque è un inizio. Dopo 4 anni, il bilancio è ridicolo: solo il 5,6% dei lavori conclusi, una miriade di criticità emerse. Si scopre che il sistema Rendis di monitoraggio non permette di rendicontare le spese, i commissari non hanno strutture tecniche adeguate e i piccoli comuni non hanno personale per stilare progetti e garantire la direzione lavori. Un problema, quest’ultimo, che si riverbera anche negli anni successivi. «La colpa non è nostra, bensì del patto di Stabilità che blocca i fondi», si giustifica allora l’esecutivo di Berlusconi.
Monti neanche ci prova, impegnando il suo governo al risanamento dei conti dello Stato, e Letta rimane in carica solo 9 mesi. Arriva Renzi, e mentre scatena una battaglia con gli ambientalisti concedendo permessi per le trivellazioni di idrocaruburi offshore, ha l’intuizione di creare una struttura di missione per il dissesto presso la Presidenza del consiglio per mettere a terra i fondi e trasformarli in quel che serve per consolidare il territorio fragile. Che sia unabuona idea lo dimostra il fatto che a febbraio scorso il Senato, con l’eccezione dei 5S, vota un ordine del giorno per ripristinarla. ItaliaSicura racimola 8,4 miliardi per 11 mila interventi, la macchina procede lenta, eppur si muove. A Genova per il Bisagno partono lavori per mezzo miliardo, per dire. Dura poco. Eletto nel 2018 il governo gialloverde di Conte cancella la struttura ritenendola un costoso passacarte che rallenta l’apertura dei cantieri di 8-9 mesi. Niente paura, anche Conte ha un piano straordinario che affida al suo ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Si chiama ProgettItalia, con una cabina di regia battezzata Strategia Italia. Risultati durante i due mandati di Conte (Lega-M5S, Pd-M5S): non pervenuti. «La colpa è del codice degli appalti, che non considera i finanziamenti della prevenzione idrogeologica come prioritari», si difende oggi Costa, intervistato dal Fatto. I magistrati della Corte dei Conti la vedono diversamente e fanno a pezzi l’intero impianto di ProgettItalia, perché «non ha unificato i criteri e le procedure di spesa», «non ha trovato strumenti di pianificazione territoriale efficaci», «lentezza nelle decisioni», «non ha prodotto accelerazione dell’attuazione degli interventi».
Altro governo, altro Piano straordinario. Quello di Draghi si chiama Pneic, Piano nazionale Energia e Clima, è gestito dal ministro della Transazione ecologica e promette, tra le altre cose, l’annosa messa in sicurezza dei fiumi. I soldi per cominciare ci sono sono sempre gli stessi: gli 8,4 miliardi recuperati da ItaliaSicura che tre governi non sono stati capaci di spendere. Non ci riesce neanche Draghi, finendo per metterli nel Pnrr. Giorgia Meloni è a Palazzo Chigi da sette mesi ma ha già dovuto affrontare due disastri, l’alluvione di Ischia e quella in Emilia Romagna. Dopo Ischia, il ministro della Protezione Civile Musumeci ha tirato fuori dal taschino la versione meloniana del piano, ancora privo di nome. «Si è costituito un gruppo di lavoro interministeriale, affidato al mio dicastero, per ricostruire il quadro degli interventi anti-dissesto, risorse stanziate e fabbisogno». Naturalmente, assicurano, accelererà e semplificherà le procedure.
Vedremo. Intanto la richiesta del Senato di una nuova unità di missione vaga nel limbo e il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici non è stato ancora approvato. E dopo l’ultima tragedia sono tornate le solite parole, gli stessi propositi, le vecchie promesse. Perché una vasca di laminazione non porta voti, anche se salva le vite. Dunque si preferisce recitare la parte in commedia, concentrarsi su altro e cavarsela coi piani straordinari. Che straordinari non sono. Sono calessi.