Corriere della Sera, 22 maggio 2023
Intervista a Rita Pavone
Walter Veltroni ha incontrato Rita Pavone nel sessantesimo anniversario dei giorni del suo maggiore successo, nel 1963. Questo è il suo racconto
Io, Rita Pavone, abitavo in una casa di Borgo San Paolo, a Torino. Eravamo in sei, in due stanze. Conservo ancora oggi il divanetto di allora, mi ricorda la fatica del vivere. Poi la Fiat ci concesse di avere una casa tutta per noi, sopra al Lingotto, in piazza Bengasi.
Ricordo la prima volta che papà ci portò, mi sembrava di stare a Beverly Hills. C’era un corridoio lungo lungo in cui mio fratello ed io ballavamo il rock and roll e poi il tinello, la cucina, tre camere, due balconi. E fuori il giardino, la sabbia, l’altalena. Un paradiso, un sogno che si realizzava.
Papà, il mio managerIo non sono figlia d’arte, mio padre faceva il tornitore. Da bambina cantavo una vecchia canzone messicana. Ero su un tavolo, sul quale facevo fatica a salire e a scendere. Sono sempre stata piccolina. Papà si mise in testa che avevo talento, è stato il mio scopritore e il mio manager. Mi fece fare delle foto in cui sembravo più alta e mi portò a «Telefoniade» un premio organizzato dalla Stipel, la società telefonica del tempo, al teatro Alfieri. Cantai una canzone di Al Jolson, tutta truccata, e poi Arrivederci Roma. Vinsi e da allora cominciai a girare per i locali di Torino, una gavetta dura e importante. Il pubblico era severo, mi guardava dall’alto in basso e non ci metteva granché.
Ma dopo un po’ mi stufai. Vedevo i manifesti con la mia foto che recitavano, generosamente, «La famosa cantante Rita Pavone» e dissi a mio padre: «Ma se sono così famosa, perché devono scriverlo?».
Ero delusa, quelle sale piene di fumo, quegli orchestrali stanchi della vita...
Il palco mi piaceva, mi sembrava il mio habitat naturale, lì sopra mi sentivo alta un metro e ottanta. Invece ero piccola, di statura e di età.
Una sera a Milano, all’Olimpia dove suonava Gorni Kramer, a qualcuno venne in mente di dire alle forze dell’ordine venute per un controllo che quella sera avrebbe cantato «la ragazzina». Avevo sedici anni e non potevo farlo, mi dissero di andare via. Fu molto triste.
E poi mi ero stufata di vedere e sentire nei locali, tra il pubblico, le ironie sulla mia statura.
Altro che body shaming, mi massacravano.
Decisi di smetterla, avrei seguito i consigli di mia madre che mi aveva progettato la vita che in quel tempo era prevista per le signorine come me. Un lavoro, quale che fosse, un fidanzato che lei aveva già scelto e via così.
Ma mio padre non voleva. Una sera ci fu una grande litigata tra loro. Papà mi aveva iscritto di nascosto al festival degli sconosciuti di Ariccia. «Sei un irresponsabile, con quale soldi Rita va a Roma?» gli chiese lei. Lui rispose, fermo: «Tu non hai messo da parte i soldi per comprare il frigorifero?». Mamma non credeva alle sue orecchie, noi ancora stavamo con la ghiacciaia e il frigorifero ci sembrava un sogno. Rispose a papà che non se ne parlava nemmeno.
Fu allora che mio padre disse la frase che non ho mai dimenticato, «Penso che la vita di mia figlia valga più di un frigorifero».
Per me la musica era il riscatto. A dodici anni facevo la camiciaia, lavoravo nove ore al giorno, prendevo due autobus alle cinque del mattino.
Ad Ariccia vinsi. Quando tornai in treno, era notte, trovai mio padre al binario. Gli dissi per scherzo che anche lì era andata male. Gli vennero gli occhi umidi ma lo abbracciai e festeggiammo.
L’uomo della vitaChi vinceva il festival aveva diritto a un provino alla Rca, sulla via Tiburtina. Fu lì che vidi per la prima volta Teddy Reno, l’uomo della mia vita. Io entravo, lui usciva. Ho l’immagine davanti agli occhi, aveva una giacca appoggiata sulla spalla.
Si alternavano vari ragazzi e loro erano distratti. Poi toccò a me. Cantai When somebody loves you e vidi che, ad una ad una, le teste si alzarono e capii che ce l’avevo fatta. Alla fine del provino a Teddy Reno che diceva che sarei dovuta tornare presto in casa discografica mia madre disse, a brutto muso, che non avevamo i soldi per un altro viaggio a Roma. Mi sarei seppellita, ma Teddy la rassicurò che ci avrebbe pensato la Rca.
Il mio primo brano fu La Partita di pallone. Lo aveva scritto Edoardo Vianello e lo arrangiò Luis Bacalov.
Fu un successo improvviso e travolgente. Una sera mi telefonò Guido Sacerdote, uno degli autori di Studio Uno. Io pensavo fosse uno scherzo di Gianni Morandi che abitava con me nella stessa pensione. Invece era tanto incredibile quanto vero. Lo incontrai al caffè Greco, mi propose di fare dodici puntate, mi disse che Antonello Falqui mi voleva. La Rca era contraria, diceva che era presto, che ero piccola. Ancora… Mio padre decise. E fu, ancora una volta, la mia fortuna.
Diciotto anniIl 1963, proprio sessant’anni fa, fu il mio anno indimenticabile. Mi ricordo tutti i brani di quei dodici mesi incredibili: Alla mia età, Sul cucuzzolo, Come te non c’è nessuno, Il ballo del mattone, Non è facile avere 18 anni, Datemi un martello. E poi il mio preferito: Cuore.
Era un brano americano, Heart!, che aveva inciso Wayne Newton. Me ne innamorai ma, di nuovo, la Rca era contraria, forse anche perché era difficile avere i diritti che erano delle Messaggerie musicali. Andai con Teddy da Piero Sugar, un vero signore, e gli dissi che non poteva togliermi quel brano. Lui sorrise e io la incisi. Fu un successo travolgente.
Quell’anno fu il singolo più venduto. Che tempi, per me. Terzo posto nella classifica di tutto il 1963 per Come te non c’è nessuno, dodicesimo per La partita di pallone, ventiduesimo per Alla mia età, trentatreesimo per Il ballo del mattone, quarantatreesimo per Non è facile avere 18 anni.
Diciotto anni. Era proprio l’età che avevo in quell’anno breve e meraviglioso. Il mondo sembrava un’autostrada, come quella del Sole, la vita ci spalancava le braccia, tutto sembrava un’opportunità, avevamo fiducia nel futuro, il peggio era alle spalle. Oggi le braccia sono serrate, soffocanti, ci stringono, ci trascinano in un buio rabbioso.
Io allora ero piccola e grande e forse il pubblico mi vedeva come una specie di Lolita. Ho sempre amato le pagine che Umberto Eco mi ha dedicato nel suo «Apocalittici e integrati». Ogni tanto le rileggo: «La Pavone appariva come la prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina, nel senso in cui lo sono i soliti insopportabili fanciulli prodigio…».
I corteggiatoriSo che non ero bella, ma ho avuto molti corteggiatori. Persino Gianni Morandi mi faceva il filo, ma non era il mio tipo. Siamo sempre restati amici. Era come mio fratello. Ci sentiamo simili. Suo padre calzolaio, il mio tornitore. Tanta fatica, tanta gavetta.
Io sono arrivata illibata al matrimonio, nonostante i miei ormoni galoppassero. È stata dura, immagino anche per Teddy. Lui aveva diciannove anni più di me e nell’Italia bigotta del tempo fu visto come uno scandalo. Ci siamo sposati nel 1968 e stiamo ancora insieme. Ora lui qualcosa non la ricorda più ma ci basta uno sguardo per capirci.
Ce ne dissero di tutti i colori e forse da quel momento in poi il mio successo è cominciato a scemare. In Italia. Perché fuori tutto è continuato. Nel 1972 ebbi un trionfo all’Olympia di Parigi. E ho continuato a girare per il mondo.
In Italia era finito l’incanto. Si voleva che fossi Lolita o forse Minnie. Ma io ero cresciuta, ero donna, moglie, madre. Leggevo, avevo un mio pensiero, una mia identità. Dico sempre quello che penso, qualche volta sbaglio come mi è capitato nel caso di Greta Thunberg, errore per cui chiedo di nuovo scusa.
La vita era stata generosa e splendida, con me. Avevo cantato alla Carnegie Hall, presentata da Ed Sullivan, avevo conosciuto Ella Fitzgerald, Orson Welles, Eric Burdon, i Beach Boys.
E Anton Karas, l’autore della famosa colonna sonora del Terzo uomo il film di Carol Reed con Welles.
Lo andammo a cercare ai tempi del Giornalino di Gian Burrasca. Anche quella che avventura.. Regia di Lina Wertmuller, compagni di lavoro Sergio Tofano, Valeria Valeri, Bice Valori imbruttita e in ginocchio… E poi Nino Rota, il musicista di Fellini. Lui mi fece sentire La pappa col pomodoro al pianoforte. Però sembrava un minuetto, era bella ma lenta. Ci voleva qualcosa che mi assomigliasse di più. E così Karas, con il suo zither, venne in studio e registrò la sua meravigliosa introduzione, io ci mesi un inopinato urlo e tutto si combinò meravigliosamente.
Mi ispiro a BertoliIo non volevo farlo, quel programma. Mi sentivo male nel ruolo di un ragazzino, maschio. Tutto quello che volevo scrollarmi di dosso. Lina mi fece una sfuriata. Aveva ragione, fu un successo enorme. Avevo tre fratelli, me li studiai per il personaggio.
Uno di loro se ne è andato qualche tempo fa. Aveva una encefalopatia congenita. Per un anno mi sono occupata solo di lui. Ora voglio ripartire.
Nel ricordare quell’anno incredibile per me – il 1963, l’anno di Giovanni XXIII e Kennedy – mi è venuto il desiderio di tornare a cantare le canzoni della mia vita.
Per dare un titolo allo spettacolo ho chiesto in prestito alla famiglia di Pierangelo Bertoli una frase che riassume il senso della mia vita: «Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro».