Corriere della Sera, 22 maggio 2023
Cronaca della conquista di Bakhmut da parte dei russi
«Bakhmut per oggi resta solo nei nostri cuori». Non lo dice Zelensky. Non lo vuole dire ai giornalisti al G7 in Giappone, mentre il tricolore russo viene issato sulla polvere. «Lì non c’è più niente», aggiunge. Il significato e il significante: il leader della Wagner Evgeny Prigozhin e il Cremlino potranno anche dire di aver preso Bakhmut, ma hanno conquistato solo macerie.
È un dato di fatto. Dopo oltre sette mesi dall’avvio dell’operazione «tritacarne», la città è completamente distrutta. Niente di ciò che abbiamo imparato a conoscere in quasi 300 giorni di battaglia è sopravvissuto alla furia della guerra. Non c’è più lo stadio, già sventrato da un razzo grad in agosto dove si allenavano gli atleti ucraini per le Olimpiadi; non c’è più il piazzale alberato da cui sono partiti in migliaia per le evacuazioni. E non c’è più nemmeno il Mig-17, monumento sovietico dedicato alla vittoria sul nazismo, ridotto in cenere anche lui, sotto il quale c’eravamo rifugiati in luglio mentre già volavano i colpi dell’artiglieria. Chissà che fine ha fatto la babushka che, davanti al palazzo della cultura, si lamentava con il vicesindaco perché il pane arrivato con gli aiuti era pieno di muffa. Chissà se qualcuno rimuoverà mai la carcassa del cane lupo che stava sotto le macerie della biblioteca.
«The last one»
In piedi restano solo gli scheletri dei condomini dell’epoca sovietica, vuoti e anneriti. Sulla fiancata laterale di uno di questi, un graffito colorato che recita «the last one», l’ultimo. «È come Hiroshima», dirà il presidente Zelensky dal Giappone. Bakhmut che prima della guerra contava 77 mila abitanti, ora è maceria fumante, guardata a vista dai droni. Artyomovsk la chiamano i russi, in onore del leader bolscevico Fyodor Sergeyev, meglio conosciuto come il compagno Artem. Era il 1924. «Ma quella non è la nostra città. È dal 2016 che non si chiama più così», spiega al telefono Igor, residente fuggito già in agosto. «L’abbiamo conquistata nello stesso giorno in cui, un anno fa, abbiamo preso Mariupol», esultano su Twitter i filorussi.
Nomi, simboli, statue, bandiere. La storia si accanisce sopra Bakhmut. E si accaniscono le armi. Grad, missili, proiettili incendiari, bombe al fosforo, granate, droni kamikaze, fumogeni: tutto quello che Mosca poteva, l’ha sganciato qui. La Stalingrado di Ucraina l’hanno chiamata. La nuova Grozny dei russi. C’è chi l’ha paragonata ad Aleppo, anche lei vittima del trattamento di Mosca. Prima dell’invasione russa Bakhmut era una tranquilla cittadina di fabbriche metallurgiche e vinicole. Poi il Cremlino ha deciso di farne un simbolo. Lo zar ha chiesto al suo macellaio di portagliela come vittoria da celebrare sulla piazza Rossa durante la parata del giorno del 9 maggio. Ma così non è stato. Prigozhin e l’esercito regolare russo a Bakhmut hanno perso migliaia di uomini — gli ucraini stimano fino a 70 mila tra caduti e feriti, nell’ultima fase al ritmo di un battaglione al giorno — e qui hanno concentrato tutti i loro sforzi. Lo «chef di Putin» che oggi canta vittoria ha dovuto minacciare lo stato maggiore di Mosca mostrando le pile di cadaveri dei suoi uomini. Ha vinto sì. Ma è una vittoria di Pirro.
Droni, sangue e polvere
Per mesi Kiev ha resistito, anche quando gli americani consigliavano il ritiro, anche a costo di perdere pure lei migliaia di uomini. E Bakhmut è diventata la battaglia più lunga della guerra, quella più sanguinosa dei nostri tempi. Poco strategica sia per gli ucraini che per i russi, ma simbolo dei simboli, casomai la retorica bellica non fosse già stata abbastanza soddisfatta. Durante il suo discorso al Congresso statunitense Zelensky l’ha definita il bastione ucraino. In inverno è andato in visita più volte su quel fronte a rendere omaggio ai suoi soldati che morivano per difenderla. In marzo sembrava già persa. In diretta, dal cielo attraverso le camere dei droni, l’abbiamo osservata sgretolarsi giorno dopo giorno mentre Prigozhin la trasformava nella sua battaglia personale. Una trappola mortale, dove Mosca cercava di attirare il nemico.
Poi il 6 maggio, sfruttando la carenza di munizioni e di uomini dei russi, gli uomini della 3a brigata di Kiev, hanno iniziato l’assalto sui fianchi della città. E la tenaglia si è spezzata. Non era la tanto attesa controffensiva. Piuttosto un’azione difensiva per evitare che Bakhmut diventasse un trampolino di lancio verso Kramatorsk.
Le armi più potenti mandate dagli alleati come gli Storm Shadows non sono state usate in modo massiccio su questo fronte. Intanto, una settimana fa, il Cremlino ha mandato i rifornimenti tanto richiesti da Prigozhin. È stato a quel punto che alle brigate sul fianco sud è stato dato l’ordine di tenere le posizioni. Per non sprecare munizioni. Per non versare altro sangue. Gli ucraini hanno combattuto qui per lo più con i mezzi dell’ex Unione Sovietica.
«È come se stessimo cauterizzando una ferita in modo che non sanguini più», ci aveva spiegato il maggiore Juri della 57esima brigata sulle postazioni dell’artiglieria vicino a Chasiv Jar. «Le forze armate ucraine controllano ancora diverse aree nella parte sud-occidentale della città», confermava ieri mattina il portavoce militare, Serhii Cherevatyi.
In trappola come topi
I russi hanno preso Bakhmut. Ma non posso muoversi da lì, «sono come topi in trappola», aveva detto Oleksandr Syrskyi, comandante delle forze di terra ucraine che ieri è tornato in visita sul fronte. Certo, i russi topi non sono. Ma ora davvero non possono andare da nessuna altra parte al di fuori di Bakhmut. Al di fuori del deserto.