Domenicale, 21 maggio 2023
Aida a Monaco
L’esotismo di Aida Damiano Michieletto lo rispetta alla lettera: perché è assolutamente filologica la sua nuova produzione dell’opera di Verdi, fresca di debutto a Monaco di Baviera, commissionata dalla fastosa macchina produttiva dello Staatsoper. Filologica, ma contemporanea. Da inizio a fine siamo in guerra. Come vuole la partitura. Una guerra non di quelle lontane, rassicuranti, con gli egizi disegnati a geroglifici e gli etiopi moretti, e dove alla fine tutti applaudiamo l’ennesima parata del trionfo. No, questa guerra è facile intuire dove abiti: appartiene alle immagini del nostro quotidiano. Se la confiniamo nella casella dell’esotico è solo per proteggerci dalla disperazione.
Ci vuole coraggio per fare una Aida di sfollati, alloggiata interamente nella palestra bombardata di una scuola. Dove il soffitto porta i segni bruciati di esplosioni, il cesto della pallacanestro sta a terra, ma i bambini riescono comunque sempre a giocare, a saltare. Un cerchio, una palla, la vecchia asse d’equilibrio. Vestigia di un mondo finito. Dai fori in alto scenderà cenere in abbondanza, a fine secondo atto, prima dell’intervallo. Quando si rientra e il sipario si riapre, quella pioggia nera ha sommerso tutto, creando una montagna, alta fin quasi al soffitto. A punta, ha forma eloquente: eccola la piramide. Ci vuole coraggio ad accompagnare le tronfie parole del Re, «Alta cagion v’aduna o fidi egizi», mostrando gli universali risultati che qualsivoglia forma di guerra produce: una piccola bara bianca, il fagottino deposto dentro come una bambola, il vuoto intorno, nessuno che si avvicini a quel dolore. Ci vuole coraggio ma anche mano espertissima, perché non si fa teatro con il sentimentalismo. Qui tutto viene governato dall’elemento salvifico, la rigorosa e fredda attenzione alle forme, agli spazi. Accanto alla lucidità narrativa del regista cammina infatti in parallelo la dimensione artistica dello scenografo. Ancora una volta Paolo Fantin si conferma creatore di oggetti d’arte, presi dal presente e resi eloquenti in scena.
In una Aida di guerra del maggio 2023 la marcia degli egizi vittoriosi cammina sulle gambe monche di civili rivestiti a nuovo, con stampelle, in carrozzella. Le danze diventano la loro sfilata su una passerella rossa, di quelle che il teatro ha nei corridoi, e la folla sta arginata dietro cordoni fissati a trespoli dorati, uguali a quelli nei foyer. L’effetto è di sdoppiamento: in scena stiamo noi. Sui cori propiziatori di «Nume costode e vindice» un telo bianco steso a terra ospita una scacchiera di scarponcini militari, presagi di tombe; lo stesso telo cala verticale a coprire la consegna delle medaglie ai reduci. Lì verranno proiettate a flash le immagini (rocafilm, efficacissime) degli incubi di uno di loro. E sono quelle le danze. Mai così vere.
È chiaro che uno spettacolo di questo taglio cambi sia l’interpretazione, sia la nostra percezione d’ascolto. In una dimensione di esecuzione convenzionale, la prova di Anita Rachvelishvili non sarebbe mai passata indenne da contestazioni, perché oggettivamente fallosa, con voce fuori controllo, parole e ritmo incomprensibili. Qui invece persino la sua caporetto vocale prende un senso, avvolta da una teatralità strenua, tanto immedesimata in questo profilo di Amneris da uscire vittoriosa: sarà lei la più festeggiata.
Più di Elena Stikhina, Aida nobile, elegante di fraseggio, perfetta di note; in abiti poveri, pantalone largo e golf fuori misura come la vuole Carla Teti, prigioniera vera e dunque senza concessioni alla finzione. È la ragazza buona, per Michieletto. Senza bisogno di pelle nera. Persino Brian Jadge, dopo un esordio squisitamente tenorile, con un «Celeste Aida» esteriore, il fiato prima dell’acuto spinto e forte (orrore) entrava in questo Verdi autentico.
Suonato tra l’altro da una buca notevole, nella tradizione alta delle orchestre tedesche, compatti gli archi, stupendi gli ottoni, senza la minima incrinatura le sei trombe egizie, a quinta nei palchi di proscenio. Perfetto il coro. Daniele Rustioni qui non è solo direttore ospite principale, ma soprattutto molto amato: il pubblico gli tributa una vera ovazione. Meritata, perché l’assieme è ben governato, con bacchetta che scandisce finissima, e pazienza se la sinistra potrebbe puntare meno l’indice o pettinare i capelli. Aida finisce così: metà sala fugge buando rumorosamente, l’altra metà resta tutta in piedi, platea e balconate, per un quarto d’ora di applausi schioccanti, i visi seri di chi ha capito.