Domenicale, 21 maggio 2023
Siamo quello che siamo perché ci mancano dei pezzetti di Dna
Oggi è semplice: in normali condizioni di luce, è impossibile scambiare uno di noi per uno scimpanzé, o viceversa. Noi siamo umani, loro no. A pensarci meglio, però, non è così semplice. I nostri Dna – nostro e dello scimpanzé– ci dicono che discendiamo dagli stessi antenati, vissuti sei o sette milioni di anni fa. Dunque, se andiamo un po’ a marcia indietro nel tempo, quelle che oggi sono due specie distinte si fondono, diventano una. Ma allora, da quando hanno cominciato a essere differenti, da quando possiamo dirci umani?
Charles Darwin giudicava la domanda «poco interessante». La risposta, scriveva, dipende dalla nostra definizione di essere umano, soggettiva, e non da caratteristiche oggettive, cioè anatomiche o fisiologiche. Pensava che tre fossero le particolarità della nostra specie: stare in piedi, avere un cervello enorme, e disporre della facoltà del linguaggio, e che si fossero evolute simultaneamente.
Darwin però non conosceva fossili umani. Nel suo libro La selezione sessuale e l’origine dell’uomo cita frettolosamente «il famoso uomo di Neanderthal», senza alcun commento. Oggi invece i fossili sono tanti e la collezione continua ad allargarsi: tanto per dirne una, dal 2004 si sono aggiunte all’elenco quattro nuove specie del genere Homo: floresiensis, denisova, naledi e luzonensis. Lo studio di questi e altri reperti ha dato indicazioni importanti: per esempio, sappiamo che delle tre caratteristiche umane care a Darwin si è evoluta per prima quella in apparenza meno nobile, andare su due gambe, e le altre sono arrivate a traino. Eppure la domanda resta ancora in sospeso.
Il problema è che è andata in crisi l’idea che il cammino dell’evoluzione sia lineare, come in quelle famose immagini in cui un antenato scimmiesco, a sinistra, si trasforma per gradi in uno come noi. Oggi sappiamo che dagli antenati comuni di Homo sapiens e dello scimpanzé si sono evolute tante forme diverse di cui una sola, la nostra, è ancora in circolazione. Non c’è prova che fossimo noi i predestinati al successo; e in questo groviglio di specie che si formano e si estinguono diventa problematico indicare il punto preciso in cui, oplà, da non umani si diventa umani.
Ma procediamo con ordine, cercando di evitare semplificazioni come: «La storia è cominciata quando gli umani hanno inventato gli dei, e finirà quando gli umani diventeranno dei» (è stato scritto anche questo, purtroppo). Sono slogan che non aiutano, perché, nella loro apparente immediatezza, schivano le questioni principali: cos’è successo esattamente, quando, e come. È successo che, a un certo punto, una forma umana arcaica, molto diversa da noi (l’abbiamo chiamata Homo habilis) ha superato un limite cognitivo di tutti gli altri primati. Gorilla e scimpanzé si servono di semplici attrezzi, per esempio un sasso per spaccare le noci, ma non sono capaci di costruirsi attrezzi per mezzo di altri attrezzi. Homo habilis, invece, scheggiava pietre sbattendole contro altre pietre più di due milioni di anni fa: e così possiamo indicare a spanne la data in cui abbiamo cominciato a fare cose che nessun altro è mai riuscito a fare.
Basta per dire che siamo umani da due milioni di anni? Qui aveva ragione Darwin: dipende da cosa ciascuno di noi considera umano, e quindi lascerò la risposta in sospeso. Ci sono però nuove ricerche che potrebbero aprire nuovi orizzonti. Fino a poco fa si ragionava così: noi parliamo, gli scimpanzé no. Dunque, nel nostro Dna avremo qualcosa in più di loro, qualche gene in più; trovandolo, spiegheremo perché siamo tanto più bravi. Per questa strada, però, non si è andati lontano. Intanto, i Dna umani e dello scimpanzé sono uguali al 98,8 per cento. In fondo non è strano: i nostri scheletri, i nostri fegati e polmoni, le nostre vie metaboliche sono molto simili, specie se ci confrontiamo, tanto per dire, con le sogliole o i ciclamini. E poi, quella piccola percentuale di geni che abbiamo solo noi non sembra direttamente collegata alle nostre capacità cognitive: niente di particolarmente illuminante, insomma.
Uno studio pubblicato recentemente sulla rivista «Science» (Xue RJ e altri, The functional and evolutionary impacts of human-specific deletions in conserved elements, «Science», 380) fa pensare che il discorso vada capovolto: forse noi siamo quello che siamo perché, rispetto agli altri mammiferi, abbiamo qualcosa in meno. Confrontando centinaia di specie diverse, con uno sforzo sperimentale gigantesco, ci si è resi conto che mancano, nel nostro Dna e solo nel nostro Dna, piccolissimi pezzetti presenti invece in tutti gli altri. Bisognerà ancora lavorarci parecchio, ma già sappiamo che alcuni di questi pezzetti influenzano il modo in cui i geni si attivano o si disattivano, specie nella fase di sviluppo del cervello. Dunque, questo qualcosa in meno potrebbe spiegare come mai, con gli stessi geni degli scimpanzé, più o meno, ma coordinandoli in modo diverso, ci ritroviamo con un cervello molto più grande e più sofisticato.